Aldo Grasso, Corriere della Sera 04/05/2012, 4 maggio 2012
VENIER, D’URSO E IL VALORE INFORMATIVO
Nella cultura popolare la maggioranza non è un disvalore: le classifiche di vendita, il box office, l’Auditel sono termometri di cui non si può fare a meno. Per questo, lo sforzo di capire il funzionamento di alcuni meccanismi «culturali» è ancora più grande: i numeri dicono molto, ma non tutto. Per esempio, nei giorni in cui a Perugia si teneva il festival internazionale di giornalismo e si discuteva di temi cruciali, se cioè il giornalismo sia denuncia, inchiesta o più semplicemente un modo per monetizzare l’informazione, se la chiave di volta del nuovo giornalismo siano il web e le nuove tecnologie, mi interrogavo su chi faccia veramente informazione in tv, al di là di quei riti serali che ormai sono i tg.
Nella cultura popolare la convergenza non è un disvalore. L’informazione la fanno solo i giornalisti?
Non mi pare: se vi capita di seguire il pomeriggio delle due reti ammiraglie vi accorgerete che l’informazione è saldamente in mano a Mara Venier (Rai1, «La vita in diretta») e a Barbara D’Urso (Canale 5, «Pomeriggio cinque»). I giornalisti, quelli invitati o quelli più istituzionali come Paolo Liguori, sono puro contorno, servono a rafforzare la scena, ad accendere il dibattito, a svolgere una funzione puramente veridittiva (se c’è un giornalista significa che la storia è vera).
Nella cultura popolare l’old journalism non è un disvalore. E allora dosi massive di cronaca nera, quella più trucida, con i morti e tanto sangue, e «paccate» di pareri degli opinionisti, tipo Irene Pivetti o un prete che farebbe meglio a starsene nella sua parrocchia, e miriadi di interviste a gente della strada, a quelli che dicono «era una persona a posto, tranquilla» e stanno parlando di un assassino.
E intanto l’opinione pubblica, giorno dopo giorno, viene formata da Venier e D’Urso. È l’audience più indifesa, più larga. Bisogna scavare molto per capire come va l’informazione e dove si nascondono i disvalori.
Aldo Grasso