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 2012  maggio 04 Venerdì calendario

Munch, 120 milioni di dollari per un Urlo che appartiene a tutti - Doveva diventare l’opera d’arte più cara mai venduta a un’asta e così è stato

Munch, 120 milioni di dollari per un Urlo che appartiene a tutti - Doveva diventare l’opera d’arte più cara mai venduta a un’asta e così è stato. La quarta versione dello strafamoso Urlo di Edvard Munch, l’ultima in mani private, è stata venduta mercoledì a New York poco prima delle 20 (le 2 di ieri notte in Italia) dall’ipnotico battitore austriaco di Sotheby’s Tobias Meyer. L’asta per questo capolavoro è partita da 40 milioni di dollari ed è arrivata in un quarto d’ora, un tempo interminabile per i ritmi delle aste, a 120 milioni, battendo ogni record. Se la sono contesa Stephan e Charlie, due falchi o meglio due avvoltoi della casa d’asta che al telefono con due misteriosi clienti si sono contesi il pastello del pittore norvegese con lunghe pause di riflessione, come in una partita a scacchi, fra un milione e l’altro. Charlie aveva sicuramente dall’altra parte della cornetta il cliente più agguerrito, che probabilmente non si sarebbe fermato davanti a nessuna cifra. Il cliente di Stephan invece era più titubante, incerto, alla fine più razionale. Comprarsi l’ Urlo è dopo tutto un’inutile impresa. Non tanto perché 120 milioni si potrebbero spendere meglio, quanto perché, come la Gioconda, la figura che con la bocca spalancata corre su un ponte sopra un fiordo non potrà mai tornare a essere proprietà di una singola persona, essendo entrata da tempo nella nostra immaginazione collettiva. Chi si è portato a casa l’ Urlo ha speso i suoi soldi per un pezzo di carta con dei colori a pastello sopra, l’icona che gli sta sopra è ormai per sempre proprietà del mondo. Forse ancora più della Monna Lisa che con il suo sorrisino distaccato è riuscita a mantenere una certa distanza dal pubblico. D’altronde è una signora del Rinascimento molto lontana dalla gente di ora. Il signore che urla in una giornata di estate scandinava è invece vicinissimo a noi. Quel ponte sul quale cammina spaventato è il ponte che lo porta verso le crisi e le angosce dell’individuo moderno. Crisi e angosce che ancora oggi viviamo e condividiamo. Munch è riuscito a entrare dentro la nostra vita molto meglio e più efficacemente di quanto abbia saputo fare Leonardo da Vinci. L’opera che a New York ha fatto il botto era appesa nel salotto di casa del signor Petter Olsen un imprenditore il cui padre, amico dell’artista, aveva comprato l’opera negli anni 30. Delle quattro versioni, due nel museo Munch e una nel Museo nazionale di Oslo, questa è la prima, e l’ultima, alla quale è stato concesso di lasciare la Norvegia, addirittura con la benedizione delle autorità nazionali, più che soddisfatte dei tre urlatori rimasti a casa e felici che i proventi della vendita torneranno in patria per finanziare la costruzione di un museo a Hvitsten, il paese dove il padre di Olsen, Thomas, e Munch erano vicini di casa. Una bella lezione di civiltà e anche uno schiaffo al mercato dell’arte sempre più cinico e selvaggio. Sono varie le ipotesi su chi si appenderà in casa, o nel proprio museo personale, il piccolo capolavoro con la cornice originale dipinta dall’artista e con sopra il poema che descrive il momento cruciale quando l’immagine è venuta in testa a Munch. Potrebbe essere l’armatore greco Niarchos, gli sceicchi del Qatar oppure l’investitore americano Steve Cohen. Lo sapremo presto, essendo tutti i segreti del mondo dell’arte segreti di Pulcinella. Intanto, mentre al quinto piano della sede di Sotheby’s su York Avenue volavano i milioni, fuori si sentivano altri urli, quelli dei lavoratori della casa d’aste che rivendicavano i propri diritti sindacali. Al mattino, invitato a parlare della vendita del famoso quadro alla trasmissione di Charlie Rose delle 7 del mattino sulla Cbs, il critico d’arte del New York Magazine Jerry Saltz aveva definito la vendita e la probabile cifra pagata «disgustosa» in un momento economicamente cosi tragico per tanta gente normale. Insomma, per un motivo o per un’altro il povero omino norvegese sarà condannato a rimanere il simbolo di un’umanità che non riesce più a trovare pace.