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 2012  maggio 04 Venerdì calendario

L’IRA FUNESTA DEL TIMIDO SIGNOR ROSSI

Come tutti gli iniziati a un culto molto esclusivo, se non addirittura esoterico, noi fan di Delio Rossi ci sentiamo un po’ urtati da tutto questo diluvio di esecrazioni e condanne piovuto sulla testa del nostro eroe. È innegabile che, come il Zidane della craniata a Materazzi, anche Rossi se le è meritate.
Con una gamba dentro la buca della panchina e l’altra allungata sul prato a bordo campo, mentre cerca di sferrare un solenne cazzotto pedagogico all’irrispettoso provocatore Adem Ljajic, la posa in cui è stato immortalato è una delle più eloquenti rappresentazioni contemporanee dell’inutilità, del ridicolo, della profonda tristezza di tutti quei momenti in cui qualcosa o qualcuno ci inducono a perdere le staffe. Il vecchio Zidane, perlomeno, aveva dalla sua l’innata eleganza di gesti dei ragazzi di strada. E in quel caso, lo sfondo era una finale dei Mondiali, qui si è trattato di un turpe 2-2 col Novara, già retrocesso in B.
Ma c’è poco da cadere dalle nuvole. Se lo avete studiato attentamente, nel corso di una lunga fedeltà televisiva, questo Delio Rossi in escandescenze non può sorprendervi più di tanto. Finissimo tecnico, capace di imprese straordinarie con squadre dall’organico ridotto e non eccelso, autentico virtuoso della cosiddetta «panchina corta», Delio Rossi appartiene a pieno titolo a quella che Proust, con una splendida espressione, definisce «la grande famiglia dei nevrotici». Ciò significa che la sua capacità di visione è orientata in prevalenza verso quello che non va, l’errore, l’insidia capace di guastare la festa. La sua espressione più tipica, Rossi non la ricava né dal movimento degli occhi, né da quello della bocca, normali epicentri della fisionomia, bensì dalle mandibole, impegnate a stritolare l’eterna gomma americana in quella che si potrebbe definire la mimica perfetta dell’insoddisfazione e dell’apprensione.
E poi, durante quelle interviste che non sembra mai concedere volentieri, ecco apparire quella parola che è la croce e la delizia di tutti noi deliofili: «le cosine». Quando la squadra vince, dice Rossi, significa che siamo riusciti a fare le nostre cosine. E quando le giornate vanno storte, significa che le nostre cosine ce le siamo dimenticate, non siamo stati capaci di farle. Ebbene, devo confessare che, di domenica in domenica, il punto di vista delle cosine, e la sua etica implicita, mi hanno completamente conquistato. Cosa abbiamo da fare, per cavarcela, se non le nostre cosine? E cos’altro è l’uomo, in fin dei conti, se non un animale da cosine, il fabbro delle sue cosine? Riguardo l’ultima volta il famigerato video di Fiorentina-Novara, e mi chiedo cosa mai rappresenti, per un uomo come Rossi, l’irriverente Ljajic. Un angelo sterminatore? L’incarnazione di quell’inesorabile imperfezione del mondo che non basteranno tonnellate di gomme americane a rimediare? Da uomo perbene, Rossi si è scusato, si è fatto mandar via. Ma chi punta il dito, ci rifletta bene. Certe volte, ci si sente superiori solo perché ancora non si è incontrato il proprio Ljajic.