Massimo Galli, ItaliaOggi 3/5/2012, 3 maggio 2012
Massimo di pena a Breivik Solo 21 anni di prigione – Sta suscitando notevoli perplessità nell’opinione pubblica mondiale l’andamento del processo contro Anders Breivik, l’autore degli attacchi che nel luglio scorso provocarono a Oslo, e sulla vicina isola di Utoya, la morte di 77 persone e il ferimento di altre decine nel corso di un raid pianificato con cura
Massimo di pena a Breivik Solo 21 anni di prigione – Sta suscitando notevoli perplessità nell’opinione pubblica mondiale l’andamento del processo contro Anders Breivik, l’autore degli attacchi che nel luglio scorso provocarono a Oslo, e sulla vicina isola di Utoya, la morte di 77 persone e il ferimento di altre decine nel corso di un raid pianificato con cura. L’assassino rischia al massimo una pena di 21 anni di carcere, come prevede la legge norvegese. Troppo pochi, ribattono molti osservatori occidentali. Senza, peraltro, tenere conto che in diverse nazioni la pena massima non viene spesso scontata interamente a causa di abbuoni di vario tipo. Quello che colpisce è che il dibattimento nel paese nordeuropeo avviene in un contesto privo di animosità, con pacatezza e razionalità. Il quotidiano Aftenposten sottolinea che per gli stranieri ciò può apparire bizzarro, ma è il funzionamento del sistema giudiziario locale. Il criminologo Kristian Andenaes spiega che, per tradizione, lo spirito di vendetta non è considerato un argomento valido per decidere la sorte delle persone. Inoltre la maggior parte dei detenuti è rimessa in libertà una volta raggiunti i due terzi della condanna. E questo perché la riabilitazione è più importante della punizione. Un’impostazione che non è cambiata per il fatto che l’atto criminale commesso da Breivik sia stato il più sanguinoso avvenuto in Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale. In molti sono rimasti scandalizzati perché Breivik ha spiegato a lungo le motivazioni del suo gesto nel corso del processo. Eppure perfino Randi Johansen Perreau, che ha perso il figlio venticinquenne nella strage, pur riconoscendo che non è facile ascoltare l’omicida giustificare i propri atti, dice che è giusto che Breivik si sia espresso: vivere in democrazia significa dare spazio anche a ciò che non si vuole capire o sentire. Gli fa eco Bjorn Ihler, sopravvissuto all’omicidio di gruppo, che lancia un appello: dobbiamo restare noi stessi, non dobbiamo cambiare. L’aplomb di una nazione che resiste anche alle pressioni internazionali. E che non vuole cedere ai luoghi comuni che tendono a spettacolarizzare la giustizia.