Gerald Trauffeter e Antje Windmann, il Fatto Quotidiano 29/4/2012, 29 aprile 2012
“NOI, BREIVIK E LA STRAGE AL RALLENTATORE”
Il processo a Anders Breivik in corso a Oslo costringe i superstiti del massacro di Utoya a rivivere quelle drammatiche esperienze. Adrian Pracon, 22 anni, di Breivik ha intravisto solo gli stivali un attimo prima che arrivasse il colpo: “I ricordi sono stranissimi. È come se tutto fosse accaduto al rallentatore”. Eppure ha deciso di tornare a Utoya con la sorella per farle vedere il luogo in cui ha rischiato di morire.
Il 22 luglio 2011, Adrian vide i suoi compagni cadere a terra, uno dopo l’altro. Poi si accorse che l’assassino si stava avvicinando: “Era talmente vicino che sentivo il calore emanato dalla canna del fucile”. Adrian ha i capelli castani e mossi ed è figlio di immigrati polacchi. Sua sorella Katarina, seduta accanto a lui sull’auto che ci conduce al porto, ascolta con visibile emozione. Sul traghetto per Utoya ci sono dozzine di giovani con la giacca a vento rossa. L’Auf, l’organizzazione giovanile del Partito laburista norvegese, ha organizzato un incontro con i superstiti e le loro famiglie.
SEMBRA una gita scolastica di inizio primavera: i volontari dell’Auf vendono i biglietti del traghetto, i giovani parlano ad alta voce e scattano foto con il cellulare. Molti ridono. La gita a Utoya è una forma di terapia il cui scopo è quello di aiutare i giovani scampati miracolosamente alla morte a elaborare quelle ore terribili e il segno che hanno lasciato. L’idea di queste gite è venuta al settantunenne psicologo Gronvold Bugge e rientra nel quadro di un più vasto programma finanziato dalle istituzioni pubbliche per assistere superstiti e familiari. Non bisogna dimenticare che questa esperienza ha colpito in prevalenza degli adolescenti: “L’età più difficile per superare traumi di questa natura” dice Bugge. “La psiche è ancora in fase di evoluzione e la personalità non è ancora definita”. Ciascuno affronta la tragedia a suo modo. Il ventitreenne Simen Braenden Mortensen era la guardia che fece salire a bordo del traghetto Breivik travestito da poliziotto. Mortensen fa l’assistente sociale e non riesce a darsi pace: “Anche se razionalmente so che chiunque si sarebbe comportato come me, mi porto addosso un terribile senso di colpa”. Poi c’è la diciannovenne Caroline Winge che ha chiesto di poter frequentare un poligono di tiro della polizia per abituarsi ai colpi di arma da fuoco. O il trentaduenne Khalid Taleb Ahmed che prende psicofarmaci per togliersi dagli occhi l’immagine del fratello, Ismail, disteso in terra con i capelli sporchi di sangue.
Marte Fevang Smith, 18 anni, è seduta sul traghetto accanto alla madre, Monica. È una ragazza bellissima, bionda a dai luminosi occhi azzurri. Sua madre ci dice che l’estate scorsa stava cominciando a “sbocciare” quando fu colpita da una proiettile alla testa. È viva per miracolo. Durante gran parte del viaggio Marte se ne sta in silenzio. Si sente al sicuro solo a casa tra i suoi dvd, i suoi abiti e i suoi libri. La sola idea di salire su un autobus affollato la terrorizza. Un tempo le piaceva ballare, ma adesso quasi non sopporta più la musica che un tempo amava. La sua migliore amica Maria, le è morta accanto. Mar-te non ha avuto ancora la forza di riprendere la scuola. Ci ha provato all’inizio dell’anno, ma non ce l’ha fatta. Per ora lavora un paio di volte la settimana non lontano da casa.
ALCUNI SINTOMI sono comuni a tutti; ad esempio, rumori di tutti i giorni come una porta che sbatte possono far tornare alla mente emozioni legate all’esperienza traumatica. Nella fase acuta post-traumatica, spiega la dottoressa Renate Bugge, è normale che si abbiano solo ricordi frammentari, confusi: “Il cervello non riesce a mettere immediatamente gli eventi in ordine cronologico e a creare una distanza tra l’esperienza di allora e quanto accade nel presente”. In altre parole nella mente di Marte, come in quella di molti altri, tutto è diventato un confuso miscuglio di immagini da incubo: le piccole rane viste quella mattina vicino al campeggio, gli spari e le urla, il letto d’ospedale, un telegiornale che parlava del numero delle vittime. In queste condizioni il suo cervello non è in grado di svolgere compiti complessi. Per questa ragione la scuola consiglia ai ragazzi di farsi aiutare da uno psicologo.
Sulle prime Marte ha tentato di uscirne con le sue forze. Ha aperto un blog e ha cominciato a scrivere, ma ha finito per arrendersi. Il terapista che la segue sta tentando un trattamento insolito chiamato “de-sensibilizzazione e riprogrammazione del movimento oculare”. Al paziente si chiede di ricordare le scene traumatiche mentre il terapista muove un oggetto dinanzi agli occhi e chiede al paziente di seguire l’oggetto con lo sguardo. Sebbene non si sappia ancora perché, sembra che il trattamento funzioni. Sono stati curati in questo modo anche molti soldati reduci dall’Afghanistan.
A FEBBRAIO Marte ha guardato per la prima volta Breivik negli occhi. Quando è entrato in aula, Brevik ha lanciato uno sguardo a Marte e agli altri superstiti. Marte è rimasta colpita dalla vocina stridula e dall’atteggiamento che le è sembrato immaturo. Prima della fine dell’udienza Marte è svenuta. “Non voglio più vederlo. Quando dovrò testimoniare lui – come ha chiesto il mio avvocato – uscirà dall’aula”.
Adrian Pracon ha buone probabilità di superare il trauma. Mentre scende dal traghetto è visibilmente emozionato. Mostra alla sorella la roccia sulla quale era disteso. Pracon in Norvegia è diventato abbastanza famoso grazie al libro “Il cuore sulla roccia” scritto da Erik Moller Solheim sulla base della sua testimonianza. I primi mesi sono stati duri e Adrian era molto depresso. “Ma durante le lunghe conversazioni con Erik gli episodi confusi che affollavano la mia mente hanno cominciato ad andare al loro posto come le tessere di un mosaico”, ricorda.
Una cosa hanno in comune tutti i superstiti: il senso di colpa. Perché non sono morto anche io? Adrian se lo chiede continuamente e non sa darsi una risposta.
©2012,DerSpiegel–distribuitoda
The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto