Angela Vitaliano, il Fatto Quotidiano 28/4/2012, 28 aprile 2012
RITORNO AL PUGNO NERO
New York
Possiamo far finta che lo sport non abbia nessun legame con la politica esattamente come possiamo far finta che non esista la forza di gravità se cadiamo da un aereo”. Parola di David Zirin autore di una rubrica che discute proprio di sport e politica, pubblicata dal Nation Magazine e per la quale è stato nominato fra i “50 visionari che stanno cambiando il mondo”. Zirin ha scritto, peraltro, tutta una serie di libri che tendono a convalidare la sua tesi secondo cui lo sport, in America, ha rappresentato, sempre, una spinta propulsiva e fondamentale per la politica e i cambiamenti sociali.
TANT’È che l’ultimo suo lavoro, pubblicato lo scorso ottobre, si intitola The John Carlos Story, sottotitolo “I momenti dello sport che hanno cambiato il mondo”. In copertina la foto storica di John Carlos, sul podio delle Olimpiadi di Mexico City del 1968, dove era arrivato terzo nella gara dei 200 metri, mano guantata e pugno chiuso, il gesto di protesta delle Pantere nere contro le discriminazioni razziali. Il gesto di Carlos, e del suo compagno di squadra, Tommie Smith, arrivato primo, suscitò grandi polemiche e discussioni, ma restò, nella memoria di tutti, come uno dei gesti più importanti in cui lo sport prende “posizione” e lo fa anche a muso duro. Ovviamente, quegli erano gli anni Sessanta e sembrava che nessuno potesse restare davvero estraneo alla “rivoluzione” e, dunque, non sorprende che proprio in quegli anni, un campionissimo di tutti i tempi divenne la “star” più politicizzata e combattiva di tutte, a cominciare dal nome: Cassius Clay, quello che lui definì un nome da “schiavo”, poi cambiato per Muhammad Alì.
ALÌ, metteva la stessa forza che lo caratterizzava sul ring, anche nel suo attivismo politico che lo portò a legarsi a Mal-com X e poi ad aderire alla Elijah Muhammad’s Nation of Islam; costante fu anche la sua opposizione alla guerra in Vietnam, rifiutò di arruolarsi: “Io non ho nulla contro i vietcong”. La sua “politicizzazione” scrive ancora Zirin, “divenne simbolica sul ring dove i suoi match erano visti come la resistenza della rivoluzione nera contro i suoi oppositori”.
Ma gli anni non sono stati tutti uguali e ci sono stati lunghi periodi della storia in cui le star dello sport non hanno mai, nemmeno involontariamente, legato il proprio nome ad una “causa”. Come Michael Jordan che, a differenza dei suoi colleghi Charles Barkley e Magic Johnson, è sempre rimasto “neutrale” e forzatamente indifferente ai fatti della politica. Recentemente il legame fra politica e sport sembra, però vivere un nuovo momento “d’oro” con atleti sempre più desiderosi di far sentire la propria voce a proposito di questioni politiche. Com’è accaduto, per esempio, dopo l’omicidio del quattordicenne Trayvon Martin, ucciso, in Florida, dalla guardia volontaria George Zimmerman. Trayvon, prima dell’omicidio, camminava indossando una felpa con il cappuccio alzato sulla testa. In seguito a quell’episodio, i giocatori di basket dei Miami Heat, decisero di farsi fotografare con indosso una felpa con un cappuccio. Un episodio significativo che conferma una tendenza emersa già negli ultimi anni e non solo “a sinistra” ma anche nelle file più conservatrici.
DUE ANNI fa, ad esempio, durante il Super Bowl, andò in onda uno spot anti-aborto con, testimonial d’eccezione, la star del football, Tim Tebow. Intanto, Tim Thomas, dei Boston Bruins, aveva rifiutato, in segno di protesta contro l’amministrazione, un invito alla Casa Bianca. La Lega di Baseball , poi, si è fatta promotrice di una campagna contro gli atti di bullismo a discapito dei gay e Ozzie Guillen, manager dei Miami Marlins, ha più volte accusato l’ipocrisia degli americani che “fanno affari con tanti dittatori ma poi respingono il governo cubano”.
Sebbene nessuno di questi episodi, sia indenne da forti attacchi polemici, sono in molti coloro che, invece, esprimono soddisfazione per il “ritorno al sociale” dello sport soprattutto in tempi problematici come quelli che il Paese sta attraversando. O, forse, la chiave di volta è proprio lì.
Quanto più importanti sono le istanze sociali e i pericoli che minacciano i diritti acquisiti da categorie sociali più deboli, tanto più gli sportivi sembrano ritrovare il senso dello sport come un eccezionale elemento didattico e simbolico di cui tutti possano beneficiare.