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 2012  maggio 03 Giovedì calendario

TRE QUESITI SUL RISORGIMENTO DI UN LICEALE GENOVESE

Sono uno studente del liceo classico e sto approfondendo la storia del Risorgimento italiano, per questo mi permetto di chiederle:
1) Crede che l’Unità si sia realizzata soltanto politicamente, mentre sia ancora da formare una identità nazionale, cioè si debbano ancora «fare gli italiani»?
2) Ritiene che dopo l’Unità il Piemonte, di fatto, abbia abbandonato il Meridione a quelle entità substatali, come le mafie, che ancora ora ne condizionano la vita economico-politica e
sociale?
3) Come delineerebbe la figura, con tutte le sue contraddizioni, di colui che è passato alla storia come l’eroe dei due mondi?
Francesco Cevasco
Genova
Caro Cevasco, sulle tre questioni evocate nella sua lettera sono stati versati fiumi d’inchiostro e sono state scritte intere biblioteche. Cercherò di risponderle, quindi, ma a una condizione: che lei non si accontenti dei brevi cenni della mia risposta e se ne serva per approfondire questi argomenti con altre letture.
Le parole «fare gli italiani» furono scritte, nella fase decisiva dell’Unità, da Massimo d’Azeglio, uomo politico, scrittore e pittore, personalità brillante e senza peli sulla lingua. Mi sono spesso chiesto che cosa penserebbe degli italiani d’oggi se potesse verificare i risultati raggiunti dallo Stato unitario in 150 anni di storia nazionale. Potrebbe constatare che l’Italia è ancora un Paese caratterizzato da patriottismi municipali, da tradizioni storiche e politiche molto diverse, da un forte divario di stili e comportamenti fra il Nord e il Sud della penisola. Osserverebbe che persino la religione cattolica può essere vissuta e praticata diversamente in Lombardia e in Sicilia, nel Veneto e in Campania. Ma non potrebbe dimenticare che ai suoi tempi l’italiano era parlato dal 2,5% degli abitanti della penisola, che il tasso di analfabetismo si aggirava intorno al 75%, che per viaggiare dal Sud al Nord e viceversa era meglio prendere la nave che la diligenza, che l’Italia d’oggi, con tutti i suoi guai, è pur sempre la terza economia industriale europea.
Non credo che il Piemonte abbia trattato il Sud alla stregua d’una colonia o l’abbia abbandonato alle mafie, anche se questa è la tesi di alcuni legittimisti borbonici e nostalgici di un Meridione immaginario. Penso tuttavia che il nuovo Regno abbia fatto le scelte economiche e commerciali più utili all’industrializzazione del Paese e che queste scelte abbiano sfavorito le regioni del Meridione a vantaggio di quelle settentrionali. Ma credo altresì che questo non sarebbe accaduto se nel Regno delle Due Sicilie vi fosse stata una borghesia dinamica e intraprendente, capace di cogliere le grandi occasioni offerte dall’esistenza di un mercato nazionale e dalle grandi infrastrutture costruite nei primi decenni dell’Unità. Quanto alla criminalità organizzata, non è possibile confrontare la mafia siciliana e il brigantaggio dell’Italia pre-unitaria con le famiglie criminali degli ultimi decenni. Le responsabilità del governo centrale sono evidenti, ma quelle delle società locali non sono meno grandi.
Garibaldi fu un eccellente soldato, capace di trascinare con sé i suoi uomini e dotato di uno straordinario intuito tattico che gli procurò, in situazioni difficili, brillanti vittorie. Ma le sue doti maggiori, probabilmente, furono il calore umano e il fascino che sprigionava dalla sua persona. Persino gli inglesi, piuttosto allergici ai vizi retorici dei Paesi latini, furono conquistati dalle sue qualità morali e trasformarono il suo viaggio a Londra in una sorta di trionfo. Questo capitale di simpatia contribuì alla nascita dell’Italia unitaria non meno delle sue vittorie militari.
Sergio Romano