Paolo Madeddu, Rolling Stone maggio 2012; Mikal Gilmore, Rolling Stone maggio 2012, 3 maggio 2012
David Bowie (2 pezzi) Che fine ha fatto David Bowie – I giovani artisti pensano: "Morirò entro 130 anni
David Bowie (2 pezzi) Che fine ha fatto David Bowie – I giovani artisti pensano: "Morirò entro 130 anni. Diventerò grandissimo e morirò". Ma se non capita devi andare avanti. E compierne 30, e 40, 50, 57... E un territorio nuovo, nel quale io e quelli come me siamo pionieri. Stiamo cercando di capire cosa significa avere 57 anni ed essere una rockstar. E ovviamente quelli più giovani ci tengono gli occhi addosso. Dicono: "Guardalo, ormai è un vecchio!". Ma dentro di loro, in segreto, pensano: "Mmh, prima o poi toccherà anche a me... Meglio imparare come si fa". Ci sono i Travis lì seduti. E io lo so cosa stanno pensando di me. Stanno pensando: "Ehi, quel Bowie si tinge... Quello non può essere un biondo naturale"». (David Bowie, 29 novembre 2003, ospite a uno show della BBC) La sera del 18 giugno 2004, durante un concerto a Oslo, a David Bowie è arrivato un lecca lecca in un occhio. Ed è rimasto lì, incastrato. Potete vedere la foto su Internet: fa un po’ ridere – finché l’occhio non è il tuo, beninteso. Il bastoncino è entrato proprio bene, e proprio in quell’occhio. Bowie gridava di dolore e di rabbia: "Segaiolo, piccolo stupido segaiolo". I suoi musicisti guardavano attoniti mentre un assistente rimuoveva l’incredibile (e un po’ mortificante) arma impropria. Una spettatrice ha poi spiegato di aver perso il controllo del lecca lecca per una spinta ricevuta mentre ballava. Dopo un po’ il concerto è ripreso. Però: che episodio strano, che piccola crepa, anche esteticamente disdicevole (specie per uno con la sua immagine!) nel rapporto col pubblico. Viene in mente la volta che Roger Waters, innervosito da spettatori caciaroni che tiravano petardi, sputò in faccia a un ragazzo che stava guadagnando il palco dei Pink Floyd: l’episodio portò alla luce tutto il suo malessere per il successo e fu il seme da cui sbocciò The Wall. Chissà se il muro che Bowie ha progressivamente eretto tra sé e il pubblico data davvero dal concerto di Oslo, oppure da quello della settimana dopo, a Scheessel, presso Brema, quando – come la sera prima a Praga – a fine concerto Bowie sentì un dolore acuto alla spalla sinistra, finendo per collassare, dietro le quinte, dopo il bis, lontano dalle telecamere che riprendevano lo show. Ricoverato all’ospedale di Amburgo, fu sottoposto ad angioplastica. Ovvero, la sua arteria venne allargata artificialmente, con un palloncino, per impedirne il blocco. È strano come il Reality Tour, che prendeva il nome dal suo ultimo disco (2003), si sia a un certo punto così brutalmente ammantato di realtà, giustappunto. A partire dal 6 maggio, a Miami, quando un tecnico delle luci era caduto e morto poco prima dello show, poi cancellato. Fino a quel momento tutto stava andando trionfalmente: i circa 720mila spettatori paganti lo stavano rendendo il tour il più redditizio del 2004. Bowie poi, come testimoniano i filmati su YouTube (certe interviste spassose, ad esempio col giovane showman australiano Rove McManus) sembrava decisamente in forma. Il suo manifesto pareva quello della canzone Never get old, su Reality: "Guardo al futuro / solido come una roccia grazie a te / Meglio prendermi cura di me / meglio non invecchiare mai più". Lecca lecca, palloncini e luci colorate hanno poi cambiato un po’ le cose, sì. «Escludo di scrivere una canzone su questa faccenda... Però non vedo l’ora di tornare al lavoro», disse Bowie nei primi giorni di convalescenza, nella sua casa di SoHo, a Manhattan. Ancora non aveva capito che era iniziata la nuova fase della sua vita e della sua carriera: quella della graduale scomparsa. Non una scomparsa improvvisa, una fuga dal pubblico e dai media come ne abbiamo viste nel rock e non solo (da J.D. Salinger a Lucio Battisti). Lui è visibile, e fotografabile. Fa cose, vede gente. Ma non concede interviste. Sembra aver progressivamente svalutato la vita da rockstar e rivalutato quella da signor David Jones. Non una vita del tutto ordinaria: spesso appare a cene di gala legate a musica, moda o beneficenza, sempre a fianco della 57enne moglie Iman. In una di queste (aprile 2011), è stato bersagliato dai fotografi quando Rihanna è andata al suo tavolo per presentarsi. E stato paparazzato per strada, a passeggio con la sua signora, tutti e due vestiti senza troppe pretese. Ha l’aria invecchiata, sì, ma non in modo drammatico (certo: non è dato sapere se, ogni volta che deve uscire, stazioni in una camera iperbarica). Nel 2009, alla prima di Moon, film girato dal figlio maggiore Duncan (in un’altra vita, battezzato con l’ingrato nome "Zowie Bowie" e salutato con la canzone Kooks), ha posato per i fotografi col 41enne nato dal gramo matrimonio con la desaparecida Angie, con la quale anche Duncan ha rotto i ponti da adolescente per andare a vivere con un padre che – a causa degli impegni – era spesso costretto ad affidarlo a tutori. «Sono felice per lui e orgoglioso da scoppiare», ha detto Bowie alla première, per poi lasciare la scena al figlio e a un film sulla diversità e la solitudine cosmica che, forse, solo il sangue del sangue dell’uomo che cadde sulla Terra poteva fare... E probabilmente è per evitare che la storia si ripeta, se oggi – con Alexandra, avuta da Iman nel 2000 – Bowie triplica il proprio istinto paterno. In questi anni ha pubblicato qualche disco dal vivo. L’ultimo è A Reality Tour (2010). E ha canticchiato qua e là. Su disco, coi TV on the Radio, i danesi Kashmir, Scarlett Johansson (nel 2008). Sul palco, con David Gilmour, gli Arcade Fire e Alicia Keys (ultima performance dal vivo, per uno spettacolo benefico, ovviamente a NewYork: novembre 2006). Nel maggio 2007 ha fatto da diretore artistico per lo HighLine Festival, ingaggiando gli amati Arcade Fire, Air, Laurie Anderson, Polyphonic Spree, School of Seven Bells, Secret Machine e Ricky Gervais. E ha fatto qualcosina per cinema e tv: la parte più rilevante è sicuramente quella dell’enigmatico Tesla per The Prestige dei fratelli Nolan (2006). Ogni tanto scrive: è suo il testo del nuovo libro fotografico che Masayoshi Sukita gli ha dedicato, Speed of Life. Però – in un’epoca in cui tutti postano, bloggano, twittano – la sua nuova incarnazione, il successore dei tanti personaggi interpretati, non parla o quasi. Pochi mesi fa molte testate (musicali e no) hanno febbrilmente rilanciato da Twitter la frase: "Proprio mentre pensavo di ritirarmi, è arrivato Lou Reed a ispirarmi. Entreremo in studio per lavorare a More Than Meets the I". Ma subito dopo lo staff ha diffuso la laconica comunicazione: "Il sig. Bowie non ha un account su Twitter". E non fa più uso nemmeno del suo sito, attraverso il quale, alla fine degli anni ’90, era stato tra le prime star a parlare di persona con i fan: "Bowienet" è stato ridimensionato in queste settimane e trasportato su un nuovo dominio (davidbowie.com). L’ultimo messaggio del nostro uomo è datato 5 ottobre 2006, e non pare un annuncio epocale. Oddio, lui lo scrive come se lo fosse: "È successo. Finalmente. Ho ricevuto il Sacro Graal delle investiture cartoonistiche. Ieri sono diventato un personaggio di... tadah! SpongeBob Square Pants! Oh Yeah! Il mio personaggio si chiama Lord Royal Highness. In famiglia siamo euforici. Per quest’anno può anche non succedere nient’altro: beh, diciamo questa settimana...". Da allora, più che annunciare cosa sta facendo, sembra intervenire (di persona o tramite il suo staff) per dire cosa non fa. Perché, paradosso linguistico, nel silenzio le voci prosperano. "Non mi sono sottoposto a chirurgia estetica, ho semplicemente fatto un intervento ai denti, e questo ha cambiato qualcosina nella mia faccia". "La voce riguardante una collaborazione tra David Bowie e Lady Gaga è un falso e una bufala". "Malgrado le voci in circolazione, né la David Bowie Organization, né la EMI hanno mai concesso licenze per l’uso delle canzoni del signor Bowie in un musical. Non ci sono trattative di questo tipo in corso". "Il pacchetto cd e dvd David Bowie Birthday Celebration: Live In NYC 1997, del quale è stata data notizia da diversi organi di stampa, non ha alcuna autorizzazione ufficiale". "Il libro Bowie: Object, del quale alcuni giornali hanno dato per imminente la pubblicazione, non è ancora stato completato dal suo autore, David Bowie". A parlare è stata invece Iman, lo scorso luglio, in un’intervista al Times. In sintesi ha detto: "David sta bene, è in salute. Legge parecchio: giornali, libri. Non fa che dirmi cosa devo leggere. Lo fa anche con nostra figlia Lexi, la aiuta coi compiti e gioca con lei. Ci piace averlo a casa". E così – chissà se per motivi di salute (le solite voci, che lo vogliono semispacciato) o per privilegiare la vita familiare del personaggio David Jones – declina l’invito a Londra per la celebrazione dei 40 anni di Ziggy Stardust con una targa in Heddon Street, dove fu scattata la foto della copertina. C’erano alcune autorità cittadine, i media, i fan. Ma lui no. A scoprire la targa è stato Gary Kemp, degli Spandau Ballet (nientemeno). Londra è un capitolo chiuso: "David ha cercato di convincermi a tenere la nostra casa di Londra", ha detto Iman. "Un anno che siamo andati lì in estate e c’era il sole mi diceva: «Credimi, il tempo è sempre così!». Non gli ho dato corda, e ha rinunciato". Non per mancanza di liquidi: la coppia, che unisce due solidi imperi (Iman tra moda e cosmetici è una delle donne più ricche d’America), nel 2003 si è comprata una piccola montagna: i 25 ettari attorno alla Little Tonshi Mountain, nella Ulster County, Stato di New York. Forse il fatto è che Bowie ha vissuto pubblicamente dal 1969 al 2004. Sono 45 anni. Durante i quali il suo colore di capelli è stato oggetto di discussione, il suo modo di vestire e il posto dove andava a vivere sono stati oggetto di discussione, i suoi alieni e i suoi Heroes sono stati oggetto di discussione, e lui non si è mai sottratto, anzi. Poi, di colpo, Major Tom è tornato sulla Terra. E ha scoperto che essere Mr. Jones, proprio come lo scialbo americano medio su cui Bob Dylan ironizzava negli anni ’60, gli piace. Lui, che è sempre stato due passi avanti agli altri, ha scoperto che non fare niente di speciale è una vita eccellente. Che ci stia suggerendo qualcosa? Certo, per seguirlo davvero, dovremmo vendere 120 milioni di dischi... Paolo Madeddu L’uomo che cadde sulla terra – La Storia di David Bowie è quella di un uomo diverso da tutti gli altri. Fin dalla sua nascita, o forse addirittura prima: già a partire da quella che fu la sua famiglia d’origine. La madre, Margaret Burns (che tutti però chiamavano "Peggy"), era la prima di sei figli nati in una famiglia non esattamente equilibratissima a Kent County, Inghilterra. Tre delle sue sorelle soffrivano di disturbi mentali e, secondo alcuni, lei stessa era un soggetto borderline. Poco prima della Seconda Guerra Mondiale, Peggy aveva avuto una storia d’amore dalla quale, nel 1937, nacque il suo primo figlio, Terence (da una successiva relazione avrebbe avuto anche un’altra figlia, data però in adozione). A 33 anni, Peggy incontrò poi Haywood Stenton Jones, un uomo sposato a sua volta padre di una bambina. Haywood, detto "John", aveva gestito una sala concerti a Londra fino a che il locale non era fallito, gettandolo sul lastrico. John divorziò dalla moglie nel 1946, sposando Peggy subito dopo. È l’8 gennaio 1947, a Brixton, nasceva il loro unico figlio: David Robert Jones. David era chiaramente il preferito di Peggy: da neonato – per dire – lei lo portava in giro su un cuscino, e quando fu un po’ più grande si divertiva a farlo giocare con i suoi trucchi. Del primogenito Terry, invece, sia lei sia John si preoccupavano giusto il minimo: che avesse da mangiare, sì, ma poco di più. David, invece, amava e stimava sinceramente il fratello, che a sua volta gli dimostrava grande affetto. Nel 1956, Terry entrò nella Royal Air Force per due anni. Quando tornò a casa, era cambiato: era sempre sovreccitato, non si curava del suo aspetto esteriore. I medici gli diagnosticarono una schizofrenia paranoica. Fu proprio Terry, però, a inculcare in David alcune delle sue prime, importanti influenze: il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, autori beat come Jack Kerouac e William Burroughs e lo scrittore (e futuro amico di Bowie) Christopher Isherwood. Con l’esempio del fratellastro Terry sempre di fronte a lui, per anni Bowie si preoccupò che la sua stessa psiche potesse essere a rischio. Come spiegò in un’intervista nel 1993: «È proprio tentando di fuggire dallo spettro della follia che spesso uno si procura i peggiori danni. Io, per fortuna, mi sono sempre sbarazzato di questi alti e bassi psicologici riversandoli nella mia musica». Nel 1956, all’età di 9 anni, David ricevette in regalo dal padre un disco che gli cambiò letteralmente la vita: Tutti Frutti, il primo, esplosivo singolo del re del rock&roll Little Richard. «Credevo mi scoppiasse il cuore dall’emozione!», ha raccontato in seguito Bowie. «Quel pezzo era capace di riempire la stanza di energia e colore. In più era oltraggioso. Per me era come ascoltare Dio». Retrospettivamente, fu probabilmente quel singolo a indicare a David la propria strada: ovvero, come già Little Richard ed Elvis Presley prima di lui, incarnare agli occhi del pubblico qualcosa che il pubblico medesimo non aveva mai visto prima... Intanto, però – nel frattempo erano iniziati gli sconvolgenti anni ’60 – il giovane David Jones trascorreva ore nei negozi di dischi alla ricerca delle ultime novità musicali, entrando e uscendo al tempo stesso da un numero imprecisato di giovani gruppi R&B, nei quali cantava e suonava il sassofono. Già allora David non era fatto per stare in una band: quelli con cui gli capitava di suonare, in genere, mal tolleravano i suoi modi autoritari, il suo essere esigente e sempre pronto a prendersela con gli altri se qualcosa non funzionava alla perfezione. Quando lui aveva 16 anni, una di queste band venne addirittura messa brevemente sotto contratto dalla Decca. David Jones però immaginava se stesso come qualcuno diverso da tutto e da tutti. E un giorno incontrò Ken Pitt, un uomo che la pensava esattamente allo stesso modo. Pitt era un manager sofisticato e versatile. Aveva organizzato uno dei primi tour inglesi di Bob Dylan, e tra i suoi clienti c’erano l’estroso pianista Liberace e i Manfred Mann nel loro periodo beat. Nel 1966, dopo aver visto David al Marquee di Londra, Pitt si convinse di aver trovato qualcuno «con lo stesso magnetismo di Frank Sinatra». In breve divenne il suo manager e gli procurò un contratto come solista. Inoltre, gli permise di vivere a casa sua, salvandolo dall’assillo continuo di Peggy e dal tormentato rapporto che c’era tra i genitori e suo fratello Terry. Secondo alcuni, Pitt aveva anche un interesse sessuale nei confronti del suo nuovo coinquilino. Lui ha sempre negato, ma in un’occasione ha dichiarato che: «Per David era sempre fonte di grande piacere sfilarsi i vestiti. Talvolta si sedeva a gambe incrociate con le casse dello stereo a tutto volume, altre volte si aggirava per l’appartamento con il suo lungo, poderoso pene che oscillava da una parte all’altra come il pendolo di un orologio». A David, Pitt impose anche di cambiare nome: non fosse altro perché c’era un altro inglese sulla via della fama (sarebbe infatti di lì a poco entrato nei Monkees) che si chiamava quasi come lui: Davy Jones. David stesso, del resto, era allettato dall’idea: per lui equivaleva a rinnovare la propria identità, a presentare al mondo un nuovo sé. Gli piaceva il cognome di Mick Jagger perché ricordava le parole danger (pericolo) e dagger (pugnale). Ma era anche un fan di Jim Bowie, il pioniere americano ritratto da Richard Widmark, famoso per la sua destrezza con il coltello. La scelta cadde così su "Bowie": David pensava che questo cognome suggerisse l’immagine di una lama affondata nelle verità più profonde. Ma l’impronta più duratura lasciata da Pitt nella carriera artistica di Bowie risale alla fine del 1966. A dicembre, il manager tornò da un viaggio a New York con una prova di stampa del primo disco dei Velvet Underground. Bowie rimase folgorato. I Velvet suonavano una musica meravigliosa e, allo stesso tempo, cacofonica. Il cantante – un certo Lou Reed – raccontava di gente che camminava sull’orlo di esperienze estreme, disperate. Nonostante la strada indicatagli dai Velvet Underground, la musica realizzata da David nei suoi primi cinque anni come solista non rispecchiò affatto tale epifania. Il suo primo disco, pubblicato nel giugno del 1967, oscillava invece tra un lirismo da chanson francese (alla Jacques Brel) ed eleganti ballate teatrali: e l’effetto complessivo era troppo tenue per distinguersi nella psichedelia degli anni ’60. L’album attirò comunque l’attenzione di Lindsay Kemp: attore, mimo e insegnante di danza. Sotto la guida di Kemp, Bowie imparò a muoversi sul palco, a sfruttare le luci e l’ombra per sottolineare determinati passaggi delle proprie canzoni, a indossare il trucco bianco da mimo. E fa sempre grazie a Kemp che Bowie conobbe il kabuki giapponese, il Teatro dell’assurdo e Jean Genet. Bowie divenne l’amante di Kemp, il quale prese molto sul serio la relazione. Non altrettanto David: e quando Kemp scopri che lui andava a letto con una delle sue designer di scena, si tagliò i polsi. Poi, la sera stessa, dopo essersi fatto medicare, salì sul palco con le garze sanguinanti. E David al suo fianco, in lacrime. Bowie è stato spesso descritto come un dissociato. Come lui stesso spiegò in un’intervista a Rolling Stone del 1973: «Sono una persona decisamente... fredda. Non c’è nulla che mi faccia realmente provare qualcosa: sono sempre come intorpidito. Una sorta di uomo di ghiaccio». Era una dichiarazione decisamente interessante, specie considerando le passioni che, invece, ispirava nelle persone che gli erano vicine... A partire da Angela Barnett, la prima moglie: la donna che ha cambiato il suo mondo più di chiunque altro. Una storia controversa, pure questa: all’inizio, lui la chiamava "la luna e le stelle". Salvo, anni dopo, finire per provare nei suoi confronti un risentimento così grande come non avrebbe mai, in tutta la vita, provato per nessun altro. Angela Barnett è nata a Cipro nell’autunno del 1950, figlia di un ingegnere minerario. Il padre – un fervente cattolico – le chiese di promettere di restare vergine almeno fino ai 18 anni: e lei, che durante il college aveva avuto una storia "esplorativa" con una ragazza, che frequentava il suo stesso corso, era convinta di aver mantenuto la promessa. Ma quando un segretario della scuola le chiese conto di quella relazione, Angela andò nel panico e si gettò dalla finestra del quarto piano, salvandosi per miracolo. La fine degli anni ’60 la vede a Londra, molto legata a un A&R della Mercury Records di nome Calvin Lee. E fu proprio Lee – nel maggio del 1969 – a invitare sia lei sia David (quando ancora non si conoscevano) a un concerto dei King Crimson allo Speakeasy: i due finirono a letto insieme la notte stessa. «Era un vero stallone!», raccontò Angela a Henry Edwards, autore di Stardust; The David Bowie Story: «Poteva farci un buco nel muro, con quel suo arnese». Angela sapeva perfettamente com’era Bowie, compreso il fatto che lui fosse solito andare a letto con altre persone, uomini inclusi, ma ugualmente non riusciva a non assillarlo con la propria gelosia. I due finirono comunque per sposarsi, mettendo al mondo un figlio, Duncan Zowie Haywood Jones, nato nel maggio del 1971. Spulciando tra le dichiarazioni rilasciate nel corso degli anni, appare ovvio come Angela sia convinta di essere lei l’ispiratrice di molta della radicalità di Bowie: se non politicamente, certamente dal punto di vista sessuale. Quel che è certo è che c’era lei, al fianco di David, in uno dei momenti più dolorosi della sua esistenza: la morte del padre, nel 1969, a causa di una polmonite trascurata. Ritenendo la madre Peggy direttamente responsabile di quella morte (pare che, durante una crisi respiratoria del marito, attese troppo per chiamare il soccorso medico), Bowie decise da quel momento di tagliare definitivamente i ponti con lei. Ciò sconvolse ulteriormente la già fragile Peggy, che a sua volta abbandonò l’altro figlio, Terry, affidandolo al Cane Hill Hospital di Croydon, una clinica per malati mentali gravi. Da lì in poi, le poche volte che a Terry era consentito uscire, a ospitarlo erano David e Angela nella loro casa di Londra. David però era combattuto: da un lato voleva molto bene a Terry, dall’altro aveva un abnorme paura di vivere a stretto contatto con la schizofrenia. Space Oddity, il primo grande successo di David Bowie – uscito poco prima della morte del padre – evocava l’immagine di un uomo perso nello spazio e abbandonato al suo incerto destino: un ritratto del bipolarismo di Bowie, ma anche degli ideali e delle speranze degli anni ’60 in procinto di svanire. Quel periodo coincise anche con il trasloco di David e Angela a Haddon Hall, una casa vittoriana con le finestre gotiche. Il produttore Tony Visconti, che abitò lì per un periodo insieme ad altri musicisti, ricorda che i due erano soliti rientrare a notte fonda in compagnia di gente rimorchiata nei locali: «Non ho idea di cosa facessero», ha raccontato a David Buckiey nel libro Strange Fascination, «so solo che noi non riuscivamo a chiudere occhio a causa delle risate e dei gemiti che provenivano dalle loro stanze». Nel 1970 uscì The Man Who Sold the Worid, una storia di paranoia e sopravvivenza dove la musica era perfettamente in linea con il tono stridente e dissonante dei testi. In quel momento, Bowie era finalmente pronto per abbattere qualsiasi confine. Si circondò di nuovi musicisti che l’aiutarono a dare corpo a questo cambiamento – primo fra tutti il maestoso chitarrista Mick Ronson – ma soprattutto licenziò Ken Pitt, preferendogli un nuovo e più spregiudicato manager, Tony DeFries. Il cambiamento fu ancora più evidente con il successivo Hunky Dory, del 1971, disco che per Bowie rappresentò una vera, grande scommessa. In copertina c’era un dipinto raffigurante il cantante con lo sguardo rivolto verso l’alto e i lunghi capelli biondi tirati indietro alla maniera di certe attrici anni ’40, tipo Lauren Bacall o Marlene Dietrich. Quanto lontano Bowie si fosse spinto fu chiaro quando suonò Queen Bitch allo show tv The Old Grey Whistle Test, accompagnato dagli Spiders from Mars. Vestito con anfibi rossi a mezza gamba e una specie di tuta da lavoro aperta sul petto, Bowie rovesciò sull’Inghilterra una canzonetta elettrica e selvaggia – evidentemente influenzata dai Velvet Underground – incentrata su un uomo che, dentro una camera d’albergo da quattro soldi, aspetta inutilmente l’arrivo di un altro uomo, fino a impazzire di gelosia. In poco più di tre minuti, Bowie trasformò una fantasia abitualmente censurata dal buonsenso comune in una sorta di manifesto: una presa di posizione assai coraggiosa, che Bowie interpretò in maniera impeccabile, sicuro di sé. Il successivo Ziggy Stardust and the Spiders from Mars uscì nel 1972: a così poca distanza da Hunty Dory che i due sembravano quasi più le due parti di un album doppio. Il tema del disco – nascosto sotto la tavoletta metaforica dell’alieno caduto sulla Terra – è quello del disfacimento dell’universo così come lo si era conosciuto fino a quel momento: il crollo del muro che divide il mondo interiore da quello esteriore, la disintegrazione dell’ego (che rimanda a quella della società intera), i nuovi valori conquistati con fatica. Per creare Ziggy, Bowie si ispirò a molte fonti. Per il nome disse di essersi rifatto a "Legendary Stardust Cowboy", un cantante psychobilly texano: ma in mente aveva evidentemente anche Vince Taylor, una star minore del rock&roll anni ’60, famoso per il suo aspetto incredibilmente magro, un po’ malaticcio, ma al tempo stesso assai sexy. Questa sequenza di album fece di Bowie una star a livelli paragonabili ai Beatles dell’epoca d’oro. Nessuno, del resto, aveva mai avuto il fegato di presentarsi in scena come lui: un volto scheletrico attraversato da un fulmine e gli occhi penetranti, uno di un colore diverso dall’altro. Nessuno si muoveva come lui – a tratti con incredibile grazia, a tratti in modo angosciante, contorto, disumano – e soprattutto nessuno si era mai vestito come lui: abiti femminili principeschi e pantaloni attillati che facevano del suo membro virile il centro esatto del palco. In quei giorni, Bowie dichiarava che Ziggy Stardust era solo una creatura teatrale, ma che al tempo stesso lui aveva spinto l’interpretazione del personaggio (e l’identificazione con lui) «fino in fondo». E chiaro che ciò di cui quel disco parlava era principalmente il sesso: e in un modo che la cultura popolare non aveva mai consentito, fino ad allora. Dagli anni ’50 in avanti il rock&roll aveva sì sdoganato la pulsione erotica m quanto tale, ma pur sempre all’interno di una sessualità "ortodossa", cioè tra uomini e donne. Già gli anni ’60 – con la moda, sdoganata dai Beatles, dei capelli lunghi unisex per ragazzi e ragazze – avevano fatto la loro parte in materia di ridisegno dei confini della sessualità: con Bowie, il processo di "femminilizzazione" del macho era finalmente completo. E quando, nel giugno del 1972, durante un concerto alla Oxford Town Hall, Bowie si inginocchiò davanti a Mick Ronson, mise le mani dietro il sedere del chitarrista e spinse più volte la sua chitarra in direzione della propria bocca – in altre parole: miniando un rapporto orale – l’erfetto fu sconvolgente. La scena (che sorprese per primo lo stesso Ronson) fu immortalata da un fotografo accreditato alla serata e finì su tutta la stampa musicale. Nei giorni immediatamente successivi, a Bowie venne il dubbio di essersi spinto un po’ troppo oltre: ma a quel punto, perso per perso, decise di esagerare. Nella sua intervista più famosa di sempre – concessa nel 1972 al Melody Maker – dichiarò: «Sono gay, lo sono sempre stato, anche quando ero David Jones». Ma la verità è che Bowie era bisessuale, sposato e padre di un figlio: e tutto questo rendeva qualunque sua boutade ancor più enigmatica e scioccante. Nel 1983, Bowie confesserà a Kurt Loder di Rolling Stone: «Dichiarare di essere bisex è stato l’errore più grande che io abbia mai fatto». Secondo il critico John Gill (autore di Queer Noises: Male and Fenale Homosexuality in 20th Century Music), l’errore di Bowie fu invece di sfruttare, e poi rinnegare, la cultura gay: anche se gli andava riconosciuto il merito di aver incoraggiato molte persone a essere più aperte riguardo la loro sessualità. Tra il 1972 e il 1973, Bowie e gli Spiders from Mars sono stati in tour per 18 mesi di fila. Nel libro di Fred e Judy Vermorel, Stardust: The Secret Life of Fans, un suo seguace dell’epoca ha raccontato agli autori: «Molti uomini si toglievano le mutande e giravano con i cazzi al vento... Ricordo una ragazza che lo succhiava a uno, mentre lui tentava di seguire il concerto. Era straordinario: era come se nessuno avesse più inibizioni». L’apoteosi fu la sera del 3 luglio 1973, all’Hammersmith Palais, ultima data del tour. «Quella sera volevo davvero che finisse tutto», ha spiegato Bowie nel suo libro del 2002 Moonage Daydream: The Life and Times of Ziggy Stardust: «Mi ero stancato dell’intero concetto dietro Ziggy, salire in scena ormai mi annoiava. Ero stanco e depresso». Alla fine del concerto, prima del bis con Rock and Roll Suicide, Bowie si rivolse al pub- blico con la celebre frase: «Questo non è solo l’ultimo concerto del tour, ma anche il nostro ultimo concerto in assoluto. Addio, vi amiamo». Il pubblico rimase sconcertato, così come rimasero sconcertati gli Spiders from Mars. David Bowie aveva ucciso il proprio alter ego e licenziato la band nello stesso identico momento, davanti a tutti. Fu un esempio della ben nota capacità di Bowie di tranciare le relazioni, lasciarsele alle spalle e procedere immediatamente oltre senza fare caso alle conseguenze. Il fantasma di Ziggy Stardust ha però perseguitato a lungo David Bowie. La sua speranza era di ripartire da zero, ma sia Aladdin Sane sia Diamond Dogs – i due album immediatamente successivi – erano sostanzialmente una prosecuzione dello stesso discorso. La musica era sì più profonda, coraggiosa e cattiva, e il punto di vista ancora più tossico: ma il mondo rimaneva quello di Ziggy Stardust. Il protagonista era, di fatto, lo stesso. Nel 1974 Bowie decise di partire per un articolato tour del Nord America. Stavolta i musicisti erano confinati dietro uno schermo, invisibili, e lui era l’unico protagonista sul palco, circondato da coreografie fantastiche e macchinari di scena a dir poco visionari (come la gru, che una sera si ruppe lasciandolo per parecchi minuti sospeso in aria sopra il pubblico...). La sua voce, però, era decisamente migliorata: adesso David aveva un controllo e un estensione stupefacenti. Ma nel mezzo della tournée si stufò. Voleva ripensare il proprio sound, renderlo più soul e funky. Chiamò così il chitarrista Carlos Alomar – che aveva suonato con James Brown – e LutherVandross, per arrangiare i cori. Poi fece comunella con John Lennon, insieme al quale registrò Fame, successivamente inserita nel suo album del 1975, Young Americans: il primo, vero grande successo di Bowie negli Stati Uniti. Sua compagna inseparabile di quella stagione fu la cocaina, che fece emergere dal suo carattere tratti di fissazione, terrore e – in ultima analisi – follia. In questo senso va inquadrato il celebre diverbio con il chitarrista dei Led Zeppelin Jimmy Page, col quale divise per un certo periodo un appartamento a Manhattan e che di punto in bianco accusò di aver maledetto la sua anima... Si trasferì dunque a Los Angeles, continuando il processo di autodistruzione: stava sveglio per giorni e studiava letteratura e pratiche occulte, seguendo una dieta a base di latte, peperoni e cocaina. Una notte finì persino per chiamare Angela, a Londra, chiedendole aiuto. Le disse che le streghe volevano che lui ingravidasse una di loro durante la Notte di Valpurga, e che Satana viveva dentro la sua piscina. Finché, verso la fine del 1976, seguendo il consiglio dello scrittore Christopher Isherwood, Bowie fece i bagagli e se ne andò a Berlino Ovest insieme al suo amico Iggy Pop – di fatto trasferendo semplicemente quelli che erano i suoi problemi da un continente all’altro. Beveva di brutto: di notte girava per le strade vomitando. Urlava ai passanti: «Aiutatemi!». Ma riuscì a fare anche di peggio, invaghendosi della storia del Terzo Reich e della mitologia nazista. Già due anni prima aveva dichiarato a Playboy: «Adolf Hitler è stato una delle prime rock star. Guardate i filmati, fate caso a come si muoveva. Penso fosse bravo quasi come Jagger». Ma il momento più basso fu quando, nel 1976, arrivò alla Victoria Station di Londra su una Mercedes decapottabile, lasciandosi fotografare mentre – secondo alcuni – faceva il saluto romano. In Inghilterra la reazione fu furiosa e lo stesso Bowie rimase disgustato dalla foto: «NON sono fascista...», disse al Melody Maker nell’ottobre del 1977. «Non è andata così, io ho solo salutato con la mano. Lo giuro sulla vita di mio figlio, ho solo salutato». In quel periodo, Bowie ha fatto comunque musica eccezionale. Ascoltare Station to Station (del 1976) era come assistere a una lotta all’ultimo sangue tra una struttura-canzone autoritaria e un manipolo di furibonde chitarre anarchiche. Mentre con Low del 1977 – registrato insieme al musicista d’avanguardia ed ex Roxy Music Brian Eno – Bowie ha creato da zero un linguaggio musicale totalmente nuovo, fatto di frammenti apparentemente sconnessi tra loro e felici incidenti di percorso, che ha profondamente ispirato più di una generazione di musicisti venuti dopo, dai Joy Division a Trent Reznor dei Nine Inch Nails. Bowie era per l’ennesima volta cambiato. Aveva lasciato il manager Tony DeFries e, a distanza di qualche mese, anche la moglie Angela. Il loro matrimonio era entrato in crisi dopo subito la nascita di Duncan, nel ’71, quando – traumatizzata dall’arrivo del bimbo e forse con uno spirito materno non dei più spiccati – Angela se ne andò immediatamente in Italia con un’amica, e questo comportamento ricordò probabilmente a Bowie quello della sua stessa madre con il fratellastro Terry. Prima del divorzio, Angela tentò più di una volta il suicidio e in seguito provò a gettare fango sul marito, rilasciando alla stampa bellicose dichiarazioni circa il suo ruolo centrale nell’invenzione del personaggio-Bowie: dichiarazioni di certo esagerate, ma è nondimeno vero che lui, in tal senso, le concesse sempre pochissima riconoscenza. David si sarebbe poi risposato, nel 1992, con la modella Iman. Dopo tre anni lontano dalla musica pop, nel’83 Bowie pubblicò quello che sarebbe rimasto come il più grande successo di tutta la sua carriera, Let’s Dance, e nello stesso anno s’imbarcò nel primo di una lunga serie di spettacolari tour mondiali. Si era nuovamente reinventato ed era ridiventato una superstar: il fantasma di Ziggy Stardust se ne era finalmente andato per sempre da quel palco scenico. Purtroppo, in quello stesso periodo suo fratello Terry provò a uccidersi per ben tre volte, riuscendoci, infine, il 16 gennaio 1985. Bowie non se la sentì di partecipare al funerale e mandò delle rose e un biglietto. C’era scritto: «Hai visto più cose di quante noi possiamo immaginarne. Ma tutti quei momenti andranno persi, come lacrime spazzate dalla pioggia. Dio ti benedica». È difficile dire quanto Bowie sia stato influenzato da questo triste evento. Sicuramente, i suoi lavori successivi non hanno mai nemmeno lontanamente eguagliato le sue creazioni degli anni ’70. Ma quel che Bowie ha fatto fino ad allora conta più di tutto. Ha dato voce a chi non ne aveva, a persone che neanche il rock&roll era stato fino ad allora capace di accogliere. Persone che non sapevano ancora chi fossero veramente, o cosa sarebbero potute essere, e che Bowie ha aiutato nell’accettarsi, donandogli il coraggio per scoprire il loro vero io senza vergogna. E in questo, probabilmente, che risiede la misura del successo di David Bowie: molto più che nella sua (pur indubbia) capacità di reinventarsi continuamente, all’infinito. Bowie ha avuto il successo che tutti sappiamo, perché ha aiutato altri a rivendicare identità un tempo temute, derise, negate. Tutti loro sono stati liberati da Ziggy Stardust, vero, ed è a lui che devono dire grazie. Ma la verità è che, senza David Bowie, Ziggy stesso non sarebbe mai stato libero. Mikal Gilmore