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 2012  aprile 28 Sabato calendario

(DIS)AMORE PATERNO

(DIS)AMORE PATERNO -
Il fatto di cronaca è questo: Giu­lio Maira, neochirurgo del Pa­pa, tanti anni fa ha sposato una ragazza da poco mamma di una bimba. Pur consapevole che non fosse sua, ha deciso generosa­mente di riconoscere la piccola Francesca dichiarando all’ana­grafe di essere il padre e dandole il cognome. Dunque ha commesso il reato di alterazione di stato pre­visto dall’articolo 567 del Codice Penale. Tenuto nascosto a tutti per quarant’anni: finché ha deci­so, nel corso della separazione personale della moglie, di autode­nunciarsi, rinnegando in un solo colpo sia la sua paternità anagrafi­ca sia la sua paternità psicologica. Il reato potrebbe non essere pu­nito, perché ritenuto prescritto e, quindi, improcedibile l’attività giudiziaria volta a sanzionarlo. Anche se qualche giudice potreb­be valutare che, poiché la prescri­zione decorre dal momento con­sumativo del fatto, in questo caso il fatto non si è ancora concluso, continuandone oggi gli effetti: per esempio nei certificati anagrafici e in ogni situazione nella quale la figlia ha usato e usa il cognome ri­tenuto finora legittimo. In ogni caso, non interessa a nes­su­no come sarà sanzionato il pro­tagonista di questa storia; l’indi­gnazione verso di lui, per il suo ge­sto, sarà forse più grave e certa di qualsiasi pena. A meno che non abbia dalla sua parte la giustifica­zione di comportamenti inqualifi­cabili della figlia. Indipendentemente da quali possano essere le motivazioni che hanno portato alla frattura co­niugale, nessun uomo e nessuna donna dovrebbero mai coinvolge­re i fi­gli usandoli come armi per ab­battersi.
Purtroppo questa trage­dia, che esprime i suoi effetti nel fu­turo dei figli, si ripete ogni giorno a favore degli egoismi personali di chi litiga.
Nel caso di Francesca,le conse­g­uenze di un gesto d’amore ritrat­tato, colpiscono il suo passato, il presente e il futuro. Chi lei ha cre­duto padre per trentotto anni, og­gi la priva di una storia d’amore ge­nitoriale sulla quale fin da piccola ha formato la personalità,l’affetti­vità, la cultura. Mostrandogliela inutile e, comunque sia, toglien­dogliela. A meno che la figlia non abbia, lei per prima, ferito a morte il padre.
Nessuno può credere che la pa­­ternità, il gesto quotidiano di ac­compagnare la vita dei figli mo­strando loro orizzonti e confini, sia una questione riconducibile al Dna. Abbiamo visto tanti padri scoprire dopo anni di non essere geneticamente compatibili con i figli, eppure rifiutare anche solo il pensiero di disconoscerli. Un «ve­ro » padre, una volta, ha detto: «Se lo facessi disconoscerei me stes­so, non mio figlio. E anche quella parte di me che gli ho regalato in ogni parola e in ogni abbraccio». Per di più, quel padre che oggi rin­nega la volontà di un tempo, non è stato tradito. Non può giustificar­si con la rabbia e lo stupore della scoperta devastante di un adulte­rio. È la figlia, ad essere tradita. Una figlia che, orfana di un padre vivo, ne potrebbe anche perdere il cognome. Che assolve la funzio­ne determinante di strumento identificativo della persona, per­ch­é idoneo a riconoscerla e distin­guerla nel contesto sociale. L’inte­resse al proprio cognome è consi­derato meritevole di tutela della legge, proprio perché investe pro­fili di identità personale, sociale e di vita di relazione in genere. Basti pensare a quante mogli vorrebbe­r­o mantenere il cognome del mari­to, nonostante il divorzio preveda che lo perdano.
Non è possibile pensare, senza lasciarsi prendere dall’angoscia, al dilemma di una figlia discono­sciuta che, da una parte, non vor­rebbe mai più sentire quel cogno­me e, dall’altra, vivere il disagio di saperlo parte di sé, praticamente insostituibile, e di doverlo perde­re. Un nome che accredita e discre­dita contemporaneamente. Per il quale probabilmente dover com­battere una battaglia giudiziaria al fine di poterlo mantenere. Mal­grado la violenza subita. E sempre che questa non sia la reazione a ca­tena di altre violenze. Magari ini­ziate proprio dalla figlia.
Perché cancellare un matrimo­nio, anche con l’annullamento, e simultaneamente cancellare la paternità, è una violenza gravissi­ma; che fa strage di un importante patrimonio affettivo e ripudia la storia vissuta in comune. Sembra quasi inconcepibile tanto da sug­ger­ire il mistero di una ragione in­sondabile dietro questa dramma­tica sceneggiatura, che tuttavia non produce una fiction tv, bensì una narrazione di gravi dolori. Forse anche del padre, noto e im­portante neurochirurgo, celebre professore. Forse questo pezzo è da riscrivere, ipotizzando persino l’ingratitudine di una figlia verso un padre suo malgrado.