Marta Tripodi, Italic Aprile-Maggio 2012, 2 maggio 2012
Nel 2004 la scrittrice inglese Scarlett Thomas pubblicò PopCo (Newton Compton, 2010), romanzo ambientato in una multinazionale del giocattolo
Nel 2004 la scrittrice inglese Scarlett Thomas pubblicò PopCo (Newton Compton, 2010), romanzo ambientato in una multinazionale del giocattolo. Tra esperti crittografi, cospirazionisti, selvaggi test di mercato e bizzarri rituali aziendali, giochi finto-artigianali e finto-educativi, Thomas riuscì a demolire tutti i comparti dell’industria. Eletto libro dell’anno da numerose testate in Gran Bretagna, instillò un gigantesco dubbio in migliaia di genitori preoccupati: c’era del vero nella finzione letteraria, oppure il Paese dei Balocchi è proprio come lo descriveva Collodi in Pinocchio? Proviamo a sbirciare dietro le quinte dell’industria dei giocattoli italiana. Un settore estremamente prolifico e creativo che, in un periodo di crisi, si appoggia sulla lunga tradizione d’eccellenza e su uno spirito battagliero. Assogiocattoli, l’associazione nazionale di categoria, raccoglie oltre 170 aziende. Nonostante i modelli più venduti in Italia appartengano soprattutto a colossi stranieri, come Hello Kitty o Mattel, ci prendiamo delle piccole rivincite: basti pensare che nel 2011 l’articolo più venduto del marchio Barbie è stato Barbie e la sua Fiat 500, una co-produzione nostrana. Per non parlare di creazioni tutte italiane come Winx, Sapientino e Gormiti. Anche a livello occupazionale, l’impatto è notevole: un’azienda come Clementoni, che gestisce tutto il processo creativo e produttivo in Italia, nella storica sede di Recanati ha oltre 350 dipendenti. Dentro la fabbrica I mestieri del settore sono poco noti e affascinanti, come quelli svelati nel romanzo di Scarlett Thomas: dal progettista all’esperto di marketing infantile, dall’inventore allo psicomotricista, passando per designer, psicologi e ingegneri specializzati in sicurezza. Buona parte dei produttori di giocattoli italiani è formata da piccole aziende a conduzione familiare. È il caso di Faro Toys, di stanza a Omegna, in provincia di Verbania. Fondata nel 1945 da Remo e Maria Ruschetti, nonni degli attuali proprietari, inizialmente produceva casalinghi in alluminio. Un giorno decisero di provare a riprodurre i vari modelli in versione giocattolo e convinsero le aziende della zona, tradizionalmente un distretto del comparto casalingo, a dare loro una licenza ufficiale per le imitazioni. “Già il nonno aveva un accordo con la Bialetti per la produzione della mitica caffettiera Mokina da mezza tazza, realmente funzionante”, racconta Laura Ruschetti, nipote del fondatore. “Nel corso degli anni, in molti ci hanno chiesto di riprodurre i loro prodotti in miniatura: Gaggia, Ariete, Stirella, aziende che hanno sempre puntato sull’educazione al marchio, a partire dai bambini”. Come molte società simili, la Faro Toys progetta e produce i suoi giocattoli (tuttora modellini di celebri brand di casalinghi) al 99% in Italia, ma li esporta anche in Europa, Nord Africa e Russia. Giocattoli si nasce Ma come si diventa creatori di giocattoli, se non si nasce in una famiglia che già porta avanti questa tradizione? Esistono alcuni atenei di progettazione molto frequentati dai futuri toy designer, come l’Istituto Superiore di Arti Applicate (Lisaa) di Strasburgo, ma in Europa non esisteva finora nessun percorso di studi specificatamente dedicato alla creazione di giocattoli. A settembre, però, il Politecnico di Milano colmerà questa lacuna inaugurando il primo corso di alta formazione in Design del Giocattolo. L’anno scorso aveva organizzato un workshop in collaborazione con Assogiocattoli, dal titolo Generazione Expo. L’iniziativa è stata un successo e si ripeterà ogni anno fino al 2015, come spiega la professoressa Arianna Vignati: “Hanno partecipato una quarantina di studenti di design. Una giuria di esperti ha esaminato i progetti e premiato i migliori con borse di studio. Alcuni sono piaciuti così tanto alle aziende che hanno voluto metterli in produzione in tempi record; e li hanno presentati all’ultima Fiera delGiocattolo di Norimberga, il più importante evento mondiale del settore”. Proprio a Norimberga il Politecnico ha presentato anche il corso di alta formazione. “Oltre al design insegneremo materie come pedagogia, psicologia, scienza dei materiali e normative di sicurezza — racconta la docente — È un’esigenza delle aziende, che hanno un gran bisogno di figure specializzate: può sembrare strano, vista la quantità di nuovi modelli che ogni anno affollano i nostri scaffali, ma in Europa i veri progettisti di giocattoli sono una ventina al massimo”. Il processo creativo Tra di loro c’è Adam Shillito, inglese trapiantato in Italia al termine di un Erasmus, che sarà anche uno dei docenti del corso. È considerato uno dei migliori nel suo campo. Shillito ha lavorato diversi anni per Mattel, Lego e Chicco prima di mettersi in proprio aprendo il suo studio, Idkid, in provincia di Como. “Alle dipendenze di grandi marchi è più difficile esercitare la propria creatività, mentre ora io e il mio staff ci sentiamo liberi di proporre tutte le idee che ci vengono in mente: siamo tra i pochi studi al mondo specializzati unicamente in giocattoli, perciò il lavoro non manca”, spiega a Italic. Inventare giochi, comunque, è un lavoro molto impegnativo: “Non si tratta semplicemente di disegnare un oggetto. Le aziende arrivano da noi con una idea vaga di quel che vorrebbero: un gioco cavalcabile, una bambola e via dicendo. Noi facciamo un’analisi dell’idea e cominciamo a concretizzarla sia su carta sia con modelli tridimensionali, studiando decine di ipotesi”. La parte più difficile arriva quando si trova la via giusta: “Bisogna rendere il gioco appetibile per i bambini, ma soprattutto producibile entro certi costi, nel rispetto delle severissime norme di sicurezza e di qualità. È lì che si vede la differenza tra una persona che ha delle belle pensate e una che le realizza”. Shillito appartiene senz’altro alla seconda categoria, visto il successo di molte sue creazioni. Ad esempio i MiniVehicles, macchinine che ha realizzato per la Hape, compagnia svizzero-canadese che crea giochi ecosostenibili. “Siamo partiti dalla scelta dei materiali: uno del tutto naturale, come la canna di bambù, e uno sintetico, ovvero i bio-polimeri, una sorta di plastica eco-friendly”, racconta. “Per sviluppare un comune giocattolo ci vogliono circa sei mesi, mentre per i MiniVehicles ci sono voluti quasi due anni. Questo perché abbiamo voluto alzare la posta in gioco: un conto è utilizzare un derivato del bambù, un altro è usare la pianta così com’è. Abbiamo dovuto inventarci una procedura ad hoc per trattarla e depurarla dagli zuccheri, evitando così che marcisse. Per non parlare della produzione in serie: il bambù cambia forma e dimensione e due macchinine identiche rischiano di invecchiare in maniera diversa, allargandosi o restringendosi con il tempo”. Un lavoro complicato, ma ricco di soddisfazioni: nei primi sei mesi di produzione hanno venduto più di 200mila pezzi nel mondo, Italia compresa. “Un’enormità — dichiara soddisfatto — Ma anche se non avessero avuto questo successo, le avrei amate comunque. Mi piacciono tantissimo, adoro tenerle in mano e giocarci!”. L’auspicio di Shillito per il primo corso milanese di toy design è ambizioso: “Vorrei che provassimo a realizzare delle idee che possano interessare già le aziende, anche se create da studenti. Anche per ribadire che Milano è ancora una realtà viva e importante per questo tipo di creatività: oggi c’è la forte competizione di città come Shanghai o Delhi, perciò è il momento di darsi da fare”.