Marco Ferrante, Il Messaggero 01/05/2012, 1 maggio 2012
IL RISANATORE DI PARMALAT CHIAMATO A DISBOSCARE I CONTI
Enrico Bondi è un tecnico persino per i tecnici. Chimico di formazione, è un uomo dei numeri. Ordinato, tenace, risanatore, perbene. Nella sua lunga storia professionale due sono le operazioni che ne hanno decretato la fama: il risanamento della Montedison che in seguito al dissolvimento dell’impero dei Ferruzzi prese nel 1992 a 10 lire ad azione e lasciò a 5.500 lire e il salvataggio della Parmalat, dopo l’estromissione dei Tanzi. Ma è passato da molti altri luoghi del potere economico. Dopo avere lasciato Montedison, è transitato in Telecom e nel gruppo Ligresti. In entrambe le occasioni furono passaggi rapidi. In Telecom il mandato era quello di accompagnare l’azienda che usciva dalla stagione di Roberto Colaninno nella gestione di Marco Tronchetti Provera. Ma con Tronchetti le cose non andarono benissimo, perché Bondi era abituato ad avere carta bianca, e Tronchetti voleva fare il capo azienda. Lo stesso accade in Premafin. Non si intese con Salvatore Ligresti. Qualcuno dice per le ragioni emerse successivamente, e cioè l’eccesso di intimità finanziaria tra la famiglia e l’azienda.
Bondi è uno di quelli che crede nell’esempio. Dicono che quando arriva in un posto nuovo sceglie un ufficio non appariscente. In Telecom, raccontarono le cronache, rinunciò all’auto blu. Prese una Punto e andò a dormire in un residence a tre stelle. In Montedison introdusse il riciclaggio della carta per le fotocopie, all’epoca una specie di novità segnaletica per dire «tempi nuovi». Precedenti per il suo nuovo mestiere di risanatore di Stato.
Primo impiego in Montecatini alla fine degli anni ’50 (con l’esperienza alla guida della Montedison quasi come ritorno alle origini 35 anni dopo). Poi dopo alcune esperienze, una in Snia, arriva un passaggio nel gruppo Fiat: alla Gilardini l’azienda di famiglia che era stata ceduta al gruppo torinese da Carlo De Benedetti in cambio del 5% di Fiat quando aveva accettato di diventarne amministratore delegato (alla fine dei cento giorni CDB vendette le azioni Fiat e lasciò la Gilardini al Lingotto). Secondo le ricostruzioni è in quella fase che entra in contatto con Cesare Romiti e di rimbalzo con Enrico Cuccia e il mondo Mediobanca a cui resterà legato (piccola curiosità: Romiti non parla di Bondi in Storia segreta del capitalismo italiano, il libro intervista con Paolo Madron appena uscito per Longanesi). Guido Rossi, presidente della società da risanare, non lo amava e sottolineava le somiglianze caratteriali con Romiti.
Nella battaglia per Montedison Bondi si schiera con Maranghi a difesa dell’azienda dall’Opa di Fiat e dei francesi, ma lo fa con diplomazia. Alla fine spunta due rilanci da parte dei compratori. Ma senza alienarsi il rapporto con gli Agnelli. Tanto che a un certo punto si pensa all’ipotesi di Bondi alla guida della Fiat nella fase più difficile della vita del gruppo torinese. Ma la cosa saltò.
Poi dopo l’esperienza in Telecom e dai Ligresti, arriva la Parmalat.
Operazione complicatissima. Non solo per l’esposizione del gruppo, ma per il coinvolgimento delle banche internazionali. Bondi riesce a recuperare il denaro delle grandi banche con le cause e a guadagnarsi l’approvazione della grande stampa economica internazionale. E a tagliare i rami inutili, concentrando l’azienda sul suo core business, il latte. Ma in questa difficile azione di risanamento lui stesso sostiene di aver commesso un errore. Il 15 luglio del 2011 va all’Università Bocconi e in un convegno dice di non aver fatto abbastanza per assicurare lo sviluppo alla sua azienda, cioè di non avere saputo utilizzare 1,4 miliardi di euro che teneva in pancia per far crescere l’azienda con un’acquisizione di mercato e di aver subito l’attacco dei francesi di Lactalis (ancora loro, i francesi, dopo Edf).
Un’ammissione franca. Anche perché – dice chi lo conosce – è uno che parla poco, riluttanza che dovrà superare per spiegare e sostenere il piano di risparmi pubblici. C’è una florida aneddotica sul grande lavoratore nato ad Arezzo, che – come il suo scopritore Romiti – non prende stock-options; che, appassionato di scienze e di campagna, nella sua piccola azienda aretina, Il matto, produce olio che regala a chi gli è simpatico; che ogni anno allunga di una nuova voce (l’ultima era stata la chiamata al capezzale del San Raffaele di Don Verzè) il suo curriculum, ormai una specie di grafico della crisi di un pezzo del sistema imprenditoriale italiano.
Adesso Bondi si cimenterà con una cosa che non ha mai fatto. È la prima volta che ricoprirà un ruolo pubblico operativo. A suo tempo si parlò di lui per il risanamento di Alitalia, ogni tanto il suo nome è spuntato come ipotetico aggiustatore della Rai. Ipotesi mai realizzate. Oggi le condizioni sono cambiate. Sin dai tempi della Montedison, quando Monti era commissario europeo, ha ottimi rapporti con il presidente del Consiglio, anche personali (il figlio di Monti ha lavorato con lui in Parmalat), e anche buoni rapporti con Corrado Passera, Vittorio Grilli e Piero Giarda. Monti pensa che Bondi sia l’uomo giusto anche per la considerazione che si è guadagnato nel sistema finanziario internazionale. Certo resta un problema di fondo per il risanatore. È un manager da stato di crisi abituato ad assumere decisioni senza doverne rendere conto a un padrone momento per momento. I partiti che reggono la maggioranza sono azionisti con le loro difficoltà, ma comunque azionisti. E bisognerà ragionare con la politica.
Qualcuno gli ha già chiesto privatamente perché abbia accettato. Chi ha parlato con il neo commissario ritiene che abbia detto sì per tre ragioni, che sono le uniche che possono spingere a dire di sì un uomo di 78 anni che molto ha già fatto: il senso di sé; un certo spirito di servizio, cioè l’appartenenza alla comunità; e la tipica suggestione della sfida – ma stavolta è molto più difficile – cimentarsi con la bestia da affamare, la spesa pubblica.