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 2012  maggio 01 Martedì calendario

Juncker spara a zero su Berlino e Parigi - È riuscito a resistere giusto un paio di mesi,cioè il tempo trascorso dall’annun­cio, all’inizio di marzo,di voler abbando­nare la poltrona di presidente dell’Euro­gruppo

Juncker spara a zero su Berlino e Parigi - È riuscito a resistere giusto un paio di mesi,cioè il tempo trascorso dall’annun­cio, all’inizio di marzo,di voler abbando­nare la poltrona di presidente dell’Euro­gruppo. Alla fine, però, Jean-Claude Junc­ker non ce l’ha più fatta: continuare a so­stenere come causa del pas d’adieu «un problema di tempo», o l’impossibilità di conciliare l’impegno europeo con quello di premier del Lussemburgo, deve esser­gli sembrato all’improvviso insostenibi­le. Meglio vuotare il sacco, dunque, sen­za tener conto della diplomazia, con un’entrata a gamba tesa di quelle che fan­no male. Mr. Euro si farà da parte in esta­te, alla fine del mandato, perché è «stan­co », sì, ma delle ingerenze franco-tede­sche nella gestione della crisi. Parigi e Ber­lino «si comportano come se fossero i soli membri del gruppo», ha detto Juncker senza troppi giri di parole durante un di­scorso ad Amburgo, pur garantendo «ap­poggio in pieno» al ministro delle Finan­ze tedesco Wolfgang Schaeuble come suo successore. Parole dure, venute tra l’altro dall’uomo che più ditutti durante i mesi bui del salvataggio della Grecia ave­va c­ercato di sollecitare maggiore coesio­ne tra gli Stati membri e toni meno disso­nanti nel comunicare indirizzi strategici e soluzioni. Non è insomma un semplice sassolino dalla scarpa, quello che il primo ministro lussemburghese si è tolto. Nelle sue paro­l­e si coglie la bocciatura senza appello ver­so la crescente ingerenza franco-tede­sca, espressa in passato da una «mancan­za di coordinamento, nelle politiche eco­nomiche »,e culminata con l’approvazio­ne del Fiscal compact. La sortita di Junc­ker ar­riva inoltre in un momento in cui al­l’interno dell’euro zona deve ancora esse­re individuata la ricetta in grado di tenere assieme austerità e crescita economica. Da ieri, per esempio, la Spagna è ufficial­mente scivolata in recessione (- 0,3% il Pil nel primo trimestre, dopo l’analoga con­trazione subita tra ottobre e dicembre 2011). Quasi una non-notizia. Nè sor­prende la decisione con cui Standard& Poor’s ha fatto calare la propria scure su una decina di banche spagnole (tra cui le due big, Santander e Bbva), sorta di atto dovuto dopo il declassamento, giovedì scorso, del debito sovrano di Madrid. Tut­to insomma scontato, ma abbastanza per far colpo ieri sulle Borse, appesantite da ribassi superiori al punto percentuale a Milano (-1,4%), Madrid (-1,27%) e Parigi (-1,70%). Chiusura invece in calo, a 385 punti base, per lo spread Btp-Bund. Il nervosismo dei mercati riflette da set­timane gli interrogativi sugli strumenti che l’euro zona intende mettere in campo per ritrovare il sentiero dello sviluppo eco­nomico. La politica del rigore estremo sembra riscuotere sempre meno consen­si sia nel Vecchio continente, come ha di­mostra­to l’esito del primo turno delle pre­sidenziali in Francia e la caduta del gover­no olandese, sia negli Stati Uniti. Ed è sin­golare come le esternazioni di Juncker sia­no arrivate nel momento in cui rischia di diventare presidente dei francesi un outsi­der come François Hollande, con le sue promesse agli elettori di far la voce grossa con Angela Merkel. Di austerity, del resto, si può morire. Ne è convinto Larry Sum­mers, ex segretario al Tesoro Usa: «L’au­sterità è un passo nella direzione errata. Livelli alti di deficit sono più una conse­guenza rispetto a una causa dei problemi che affliggono il Vecchio Continente». Bollato come fallimentare il quantitative easing in salsa europea della Bce, Sum­mers ha messo il dito sulla piaga: a peggio­rare la situazione sono gli investimenti sempre più frequenti delle banche debo­li, soprattutto spagnole, nel debito pubbli­co dei propri Paesi, che creano timori e agitano i mercati finanziari.L’ex ministro di Bill Clinton parla a ragion veduta: dalle cifre rese note ieri proprio dall’istituto gui­dato da Mario Draghi si scopre infatti che in marzo nel portafoglio delle banche ibe­riche figuravano bond pubblici per 263 miliardi contro i 245 di febbraio, mentre quelle italiane hanno visto salire i Buoni del Tesoro a quota 324 miliardi, 22,3 in più rispetto a febbraio. Proprio il rafforzamento patrimoniale delle banche sarà al centro domani del vertice straordinario Ecofin (per l’Italia presente il vice ministro dell’Economia, Vittorio Grilli). Uno snodo non facile. Che potrebbe essere risolto, secondo fon­ti della presidenza danese, con l’adozio­ne d­i una maggiore discrezionalità riguar­do al cosiddetto buffer , un “cuscinetto“di capitale da aggiungere agli altri requisiti patrimoniali fissati da Basilea 3 in caso di rischio sistemico, che potrebbe anche es­sere superiore al 3% per tutti i tipi di espo­sizione e non solo a livello nazionale. Rodolfo Parietti *** Quando a dimettersi erano gli integralisti del rigore tedesco - Il passo indietro di «Mi­ster Euro» Jean-Claude Juncker non è un unicum nella storia re­cente degli organismi finanziari europei. Nello scorso settembre destarono molto clamore le pole­miche dimissioni del componen­t­e tedesco del direttorio della Bce, Jürgen Stark, il quale non avendo mai perso un’occasione per criti­care la decisione dell’Eurotower di acquistare bond italiani e spa­gnoli per sottrarli alla speculazio­ne, decise di immolarsi sull’altare del rigore di bilancio. In tedesco si usa il termine intellektuelle Redli­chkeit , ossia «integrità intellettua­le ». Non potendo incidere sulla politica monetaria ha preferito non parteciparvi con un «integra­lismo » di matrice protestante . E non erano dimissioni di poco conto giacché il componente tede­sco del governing council della Bce ha sempre presieduto al dipar­timento economico, cioè quello che si occupa degli studi sulle ten­denze dell’area euro. E non meno stupore aveva de­stato agli inizi del 2011 la scelta sor­prendente di Axel Weber, numero uno della Bunde­sbank, la banca centrale tedesca, di concludere il proprio mandato anzitempo. L’im­piego delle risorse comunitarie per sostenere il debi­to pubblico dei Paesi periclitanti di Eurolandia a Berlino non è mai andata giù. Non si può dire che la cancelliera Angela Merkel ab­bia - per questo motivo- cambiato impostazione. Tutt’altro:i succes­sori di Stark e We­ber (designato al­la presidenza del colosso bancario svizzero Ubs) - rispettivamente Jörg Asmussen e Jens Weidmann - hanno continuato nella strenua difesa dei pilastri imposti dalla Germania alla moneta unica: con­trollo dei conti pubblici e dell’in­flazione. La questione di fondo, infatti, re­sta proprio questa: l’euro a trazio­ne tedesca deve allontanare per sua stessa natura lo «spettro di We­imar », cioè del periodo 1918-1933 quando la Repubblica tedesca fu «divorata»dall’iperinflazione spa­lancando le porte al Terzo Reich. Da Kohl a Schröder fino alla Me­rkel dei giorni nostri nessun Bun­deskanzler ha mai messo in discus­sione questo dogma che alla fine­si rivela fondativo della stessa unione monetaria. Ne sa qualco­sa la Spagna, attaccata da Weid­mann alla sola ipotesi che la Bce potesse muoversi in suo aiuto. E ne sa qualcosa, purtroppo, anche l’Italia giacché il premier Monti è obbligato a difendere un Fiscal compact che sicuramente dispie­gherà i suoi effetti recessivi in un Paese ad alto debito come l’Italia. Gli screzi, le polemiche, le di­missioni simboliche di Juncker (che però lascerà il proprio posto a un altro rigorista come Schäu­ble) sono il vero volto di un’Euro­pa che di comune ormai sembra avere solo la moneta. E di cui sotto sotto anche Sarkozy- legato a dop­pio filo a Berlino - comincia a pre­occuparsi. Se non a pentirsi. Gian Maria De Francesco