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 2012  aprile 29 Domenica calendario

Il lavoro della parlamentare Pdl Rizzoli - Pubblichiamo ampi stralci del libro Detenuti­ Incontri e parole dalle carceri italiane (Sper­ling& Kupfer, 247 pp euro 18) in libreria da do­mani, scritto dal deputato Pdl e medico Mela­nia Rizzoli

Il lavoro della parlamentare Pdl Rizzoli - Pubblichiamo ampi stralci del libro Detenuti­ Incontri e parole dalle carceri italiane (Sper­ling& Kupfer, 247 pp euro 18) in libreria da do­mani, scritto dal deputato Pdl e medico Mela­nia Rizzoli. La parlamentare ha raccolto le te­stimonianze di ex detenuti e condannati illu­stri come Adriano Sofri, Salvatore Cuffaro e Olindo Romano. Di seguito il capitolo dedica­to a Roberto Savi, killer della banda della Uno Bianca che insanguinò Bologna negli anni ’90. *** «La nostra è stata una storia triste. Tanti anni fa, avremmo dovuto pensare, prima di cadere in una sto­ria del genere». Incontro Roberto Savi in una piccola sala colloqui nel carcere di Opera. (...) È il giorno di san Giuseppe, la festa del papà. «Sì, sono padre anch’io. Ho un fi­glio, Simone, che oggi ha 28 anni. Non lo vedo dal 1994, da diciotto anni, da quando sono stato arresta­to. Mia moglie l’ha portato a collo­quio con me una sola volta, poi ha detto che sarebbe stato meglio evi­targli il trauma, era un bambino e avrebbe potuto avere problemi psi­cologici. Da allora non l’ho più vi­sto. Non so com’è,non ho nemme­no una sua foto. (...) Non mi scrive, non mi cerca e non mi telefona. Non ho più visto nemmeno mia moglie. Con lei ci siamo separati e poi abbiamo divorziato. Lei ha vo­luto così». Roberto Savi, rispetto alle ultime immagini viste al processo, è invec­chiato, appesantito, ha barba e ca­pelli bianchi, lo sguardo spento. Ha un volto anonimo. Indossa una tuta color panna e bordeaux mo­dello anni ’80 e anche le scarpe da tennis sono di quegli stessi anni. (...) Io sono accompagnata da un agente che resta sempre con noi. In piedi. «Siamo stati arrestati nel 1994. Io sono stato chiuso prima a Forte Boccea, dove mi hanno tenu­to cinqu­e giorni e cinque notti sen­za bere né mangiare. Il sesto giorno ho detto “qui o muoio di sete o mi attacco su” (mi impicco, nda ) eho provato anche a farlo, ma ero guar­dato a vista e non ci sono riuscito ». (...) «Noi abbiamo iniziato per problemi economici. Per soldi. Mio fratello Fabio aveva una picco­la impresa che stava fallendo. Servi­va denaro. (...) Non avevamo inten­zione di fare del male a nessuno. Eravamo poliziotti. Noi cercava­mo di tornare a casa. Con i soldi. Fa­cevamo le rapine per soldi. Poi c’è stato il disastro. Il primo morto. E da allora ci siamo persi in qualche cosa che non avremmo mai dovu­to fare. Il male che abbiamo fatto è tanto. Troppo. Ma tornare indietro non si può. Forse per noi sarebbe stato meglio morire tanti anni fa». Roberto Savi parla in modo paca­to, rassegnato e consapevole. Gli occhi non hanno luce, non hanno vita. Sono spenti. Ha le mani appog­giate sul tavolo, è composto e genti­le. E calmo. Io gli mostro il libro ap­pena uscito di Giovanni Spinosa, il magistrato che è stato titolare del­l’indagine sui crimini della Uno bianca e che oggi è presidente del Tribunale di Teramo. (...) «Spinosa lo conosco, si è occupato di noi a Bo­logna. (...) E scrive di una strategia terroristica della mafia scatenata contro lo Stato dietro le nostre azio­ni? Mafia? Ma quale mafia! Io ho la­vorato per lo Stato italiano per di­ciotto anni! Dal 1976 al 1994. Per di­ciotto anni. Non c’è mai stata nes­suna mafia o camorra o altro. Era­vamo solo noi. Eravamo soli». Roberto Savi parla in modo deci­so e sempre al plurale. Lo farà per tutta la durata del nostro collo­quio, specie quando si riferisce alle azioni comuni con il resto della banda criminale. «Lei parla di capi. Non c’è mai stato nessun capo. Io non sono mai stato il capo della banda. Abbiamo fatto tutto insie­me. (...) Io ero il fratello maggiore, volevo bene a tutti e due allo stesso modo. Ma non li ho mai condizio­nati. Se li vedo? No, i miei fratelli non li ho più visti né sentiti dal gior­no del nostro arresto. Ci siamo scrit­ti per un po’, poi abbiamo smesso. (...) E forse è un bene così». (...) Lui ascolta e parla senza emo­zioni, non gesticola, non accompa­gna le parole con gesti del corpo. È immobile di fronte a me e ha sem­pre la stessa espressione del volto. Lo sguardo è vitreo. «Perdono? Sì, ho saputo che Alberto (il fratello, ndr ) l’ha chiesto. Ma come si fa a chiedere il perdono? Il perdono è un sentimento, io come faccio a scriverlo? Posso solo dire che mi di­sp­iace per quello che abbiamo fat­to. (...) Il mio desiderio più grande? Quello di tornare indietro come se non fosse successo niente, ma è dif­ficile, anzi impossibile». Roberto Savi scuote leggermen­te la testa, ha un sorriso lieve, abbas­sa gli occhi. Resta in silenzio. Poi mi fissa con il suo sguardo vuoto e riprende. «Il mio sogno ricorrente è quello di essere libero, di tornare a una vita normale. Ma so che non sarà possibile. Ho scritto al presi­dente della Repubblica... No, non per la richiesta di grazia, per la gra­zia serve il perdono... ma gli ho scrit­to per tornare a essere libero... (...) Dopo diciotto anni sono un uomo diverso, sono un’altra persona, questo lo dico con certezza. E vor­rei dimostrarlo. (...)». «Le visite? Io non ricevo mai visi­te. Non mi viene a trovare nessuno. Non ho amici. Ero un poliziotto, avevo solo amici poliziotti (...) so­no solo. (...) La sua è la prima visita che ricevo da diciotto anni! Stamat­tina mi hanno detto: “C’è una per­sona che vuole parlarti, la vuoi ve­dere?”, io ho chiesto conferma, ma­gari c’era un errore. Ho pensato a un’omonimia. Vuole parlare con me? Proprio con me? Non ci crede­vo. (...) Scrivo a mio figlio, però. (...) Lui non mi ha mai risposto. Ma io continuo, quando posso, a scriver­gli. Per me è un modo per colmare la mancanza di chi ha fatto parte della mia vita. Lui ora lavora in una grande macelleria, in un mercato delle carni. (...) Abbiamo seminato morte e dolore. Anche accanto a noi. Mio padre s’è cavato la vita a quel modo (si è tolto la vita)... con quelle pasticche... (...) Che padre è stato? Un esempio di onestà per noi figli. È stato sfortunato nella vi­ta e nel lavoro, ma con noi è sempre stato un esempio». Nemmeno nel ricordo del padre suicida dentro una Uno bianca Ro­berto Savi mostra emozioni. (...) «La sera guardo la televisione. Sì, ho visto anche lo sceneggiato sulla Uno bianca,ma c’erano cose false. C’era il razzismo. Noi non abbia­mo mai avuto o provato razzismo verso nessuno.L’azione che abbia­mo fatto sui rom era voluta, era un depistaggio su alcuni fatti accaduti in questura. Poi la seconda volta in quel campo rom ci sono stati i due morti,e allora ci siamo fermati».Ro­berto Savi racconta l’episodio con fermezza. La voce ha un guizzo di vitalità, (...) cerca di ricordare. Allo­ra io apro il libro di Giovanni Spino­sa, lo giro verso di lui in orizzontale e gli mostro le ultime dodici pagine che riportano dodici tabelle fitte e ordinate di tutte le azioni delittuo­se da loro compiute (...). Lui pren­de dalla tasca un paio di occhiali da presbite e legge distrattamente la spaventosa lista, sfoglia qualche pagina apparentemente senza emozione. Poi chiude il libro e lo spinge sul tavolo verso di me, mi guarda, e con voce monocorde ri­vela: «Sì, l’avevo già vista. Quando mi hanno preso (arrestato) sono ve­nuti da me con l’elenco completo. Io gli ho dato uno sguardo, ho am­messo tutto e non ho neppure con­trollato ». (...) Io riapro il libro e gli faccio leggere il paragrafo che ri­guarda la strage del Pilastro, dove sono stati crivellati a freddo i tre ca­rabinieri, dei quali gli ricordo i no­mi, Otello, Mauro e Andrea, e an­che l’età. «Eh, sì, quello è stato pro­prio brutto. Una cosa bruttissima. Avevano vent’anni. Sarebbe stato meglio morire anche noi quel gior­no ». (...) Dal corridoio, dal vetro della porta chiusa un agente guarda den­tro la stanza­dove siamo e fa un cen­no alla guardia che è con noi. Il tem­po del colloquio è finito. Rivolgo a Roberto Savi un’ultima domanda. Voglio sapere se ha una frase, una cosa da dire, e che mi autorizza a scrivere, ai parenti delle vittime, per le perdite e il dolore perpetuo che ha loro provocato. «Sì. Voglio dire che mi dispiace enormemen­te del passato, di quello che abbia­mo fatto e che non rifaremmo mai più. Mi dispiace davvero. Chiedere perdono? Ma come si può chiede­re perdono. Il perdono lo devono concedere loro, le persone che han­no subìto dei torti. Io posso solo chiedere scusa. Penso che sia più importante chiedere scusa e dire che mi dispiace. Mi dispiace enor­memente. Non lo rifarei mai più. Mai più». Savi si alza per congedarsi. Gira il viso verso il muro bianco. Ha gli occhi lucidi. Mi sembra commos­so. Io gli regalo il libro di Spinosa che parla della storia sua e dei suoi fratelli, della loro banda criminale, della tragedia loro e di tutte le perso­ne che hanno avuto la sfortuna di incrociare il loro percorso di mor­te. «Non le piacerà forse, ma lì den­tro c’è un pezzo della sua vita». Lui mi ringrazia sorpreso. Prende il li­bro tra le mani, mi guarda e dice: «È per me? Lo ha portato per me? E me lo lascia? Grazie, grazie. Allora lo leggerò... ». Roberto Savi si gira e si allontana tra due agenti che sono arrivati a prelevarlo. Va via senza una parola di saluto. Non mi ha dato né fatto un cenno con la mano. È un uomo totalmente disabituato alla sociali­tà. Mi avvio verso l’uscita. (...) La guardia che ha assistito al collo­quio mi accompagna in silenzio, poi prima di arrivare all’ingresso mi guarda e mi chiede: «Beh, come l’ha trovato, freddo vero? Sembra­va lui la vittima. Sa cosa le dico? Che la vera vittima di quella fami­glia è il figlio di Savi, che oggi sa chi è suo padre (...) ha sulle spalle que­sta croce per tutta la vita». (...) Roberto Savi mi è sembrato un sepolto vivo, un uomo dimenti­cato da tutti, rimasto completa­mente solo e abbandonato a se stes­so. (...) Ha perfino ancora gli stessi vestiti di quando è stato arrestato. (...) Il capo della feroce banda della Uno bianca che ha terrorizzato per sette anni l’Emilia Romagna a me è sembrato solo il fantasma di se stes­so.