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 2012  aprile 27 Venerdì calendario

Così Roma vinse il mondo A colpi di gladio e di umiltà - Lo scrittore che vuole far­ci rivivere una batta­glia, ci catapulta sulla li­nea del fuoco

Così Roma vinse il mondo A colpi di gladio e di umiltà - Lo scrittore che vuole far­ci rivivere una batta­glia, ci catapulta sulla li­nea del fuoco. È il meto­do di Tolstoj. In Guerra e pace , ci esplode intorno il più sanguinoso scontro delle campagne napoleo­niche. A Borodino, 250mila tra francesi e russi si affrontano nella mattanza che segna un punto tatti­co a favore di Napoleone, 80mila vittime sul terreno, la cadenza di 3 morti al secondo. Sperimentiamo la carneficina con gli occhi di Pier­re Bezuchov. L’uomo si sistema dietro una postazione di artiglie­ria e diventa, per noi, la macchina da presa di una cronaca rovente, impastata di paura, di adrenalina, di istinti primordiali. Gastone Breccia, accademico di storia militare, usa lo stesso sti­le in I figli di Marte (Mondadori, pagg.425,euro 22),il lungo e detta­gliato racconto dell’arte della guerra nell’antica Roma. Mentre leggiamo il capitolo sulla batta­glia, il tempo si annulla. Una regia simile a quella di Ridley Scott (le scene iniziali del colossal Il Gla­diatore , per intenderci, con l’ar­ma­ta dell’imperatore Marco Aure­lio impegnata contro i Marcoman­ni germanici, 180 d.C.) ci trasfor­ma in soldati di Roma. Eccoci nel­la conferta legio , il classico reparto serrato con rigore geometrico, for­te di 6000 militi. Siamo dentro la centuria , in ordine di combatti­mento, una fronte doppia di 20 uo­mini sulla profondità di 4. Abbia­mo appena lasciato lo spazio rassi­curante dei castra , gli accampa­menti fortificati e da laggiù, ai mar­gini del bosco, oltre il declivio er­boso, ci investe l’urlio disordinato del nemico barbarico che sta per fiondarsi sulla nostra schiera. Sen­tiamo ristagnare nell’aria il fetore della paura: è umano. Ma la no­stra linea è unita. Per centinaia di anni, Roma ha oliato gli ingranaggi della sua stra­tegia di guerra. Il nostro equipag­giamento è un equilibrio efficien­te di riparo e di offesa. Il braccio si­nistro regge lo scudo rettangolare concavo, due tavole chiodate di le­gno massiccio, con il bordo di fer­ro, che fa del singolo una piccola torre mobile d’assalto, rinforzata al centro da una piastra metallica, l’umbone. Lo scutum è anche un arsenale portatile. All’interno so­no appesi i due pilum , giavellotti pesanti d’ordinanza, oltre ad altri proiettili da getto. Ad ogni passo di marcia, sentiamo sulla coscia lo schiaffo del gladium , corta e mi­cidiale spada da punta e da taglio. È la daga leggendaria su cui Roma ha costruito tutte le sue glorie. Nel­le orecchie ci echeggiano ancora le parole del generale, un breve, scandito discorso di sprone,l’ hor­tatio , ripetuto ogni 500 passi della colonna in movimento, perché ciascuno oda e comprenda. L’attimo cruciale scatta quan­do il centurione, da sotto il suo el­mo crestato, spalle ostentatamen­te al nemico per infondere sicurez­za e sprezzo, gracchia l’ordine di stop, le armi al piede, il peso del no­stro corpo che si sposta da una gamba all’altra,creando lo strano effetto di un pendolo continuo, un refolo di vento che fa ondeggia­re la legione. I nostri occhi s’in­chiodano al signum , lo stendardo che indica la direzione d’attacco. Non vediamo il campo: solo la ca­lotta di cuoio che protegge la nuca di chi è in posizione davanti a noi. Quando squilla il comando di estrarre il gladio, il fruscio di mi­gliaia di lame dai foderi è come un sospiro di metallo. A questo pun­to, la battaglia è già vinta. Ciò che sta per succedere è scritto da seco­li. L’ incipit del copione è stato scritto da Marte, dio della guerra, e costantemente aggiornato. Stan­do ai miti, i Romani sono la sua prole. Da Marte nasce il capostipi­te, Romolo, il primo comandante, fondatore della perizia bellica. Agli albori, la guerra romana è per bande: pastori e cacciatori che si battono per istinto, nei raid per la preda. Mordi e fuggi. Ma Ro­ma ha un talento innato: assimila culture e tecniche dei popoli che soggioga. Dagli Etruschi appren­de il maneggio di scudo, asta e spa­da. Dai Greci, la tattica della falan­ge con le armi pesanti, articolata in legioni e manipoli, manovrate dai generali come pezzi sulla scac­chiera. L’armata è una città solida­le in marcia inarrestabile. I genie­ri gettano strade e ponti, perfora­no montagne, fanno sorgere dal nulla in poche ore una potente ba­se militare. La legione vince, perché il capo scatena lo scontro solo quando tutti i coefficienti sono dalla sua parte. Roma è grande nella vitto­ria. Ma grandissima nella sconfit­ta, perché mette a frutto l’errore, registra i piani, cementa le file con la virtus , un concentrato di mestie­re, di attaccamento patrio, di fidu­cia personale nel condottiero. Abolisce il panico,tallone d’Achil­le di ogni esercito. Orazio Còclite, il combattente che da solo blocca un’orda nemica sul ponte Subli­cio permettendo ai suoi di riorga­nizzare la difesa, è lo stampo del soldato-cittadino, l’arma regina di Roma. Dal legionario al cavaliere cata­­fratto dell’ultimo impero, statua cesellata nel ferro che prelude al medioevo, le pagine di Breccia narrano l’epica evolutiva della ca­put mundi guerriera, con l’infor­mazione del manuale storico e il respiro del colossal .