ALBERTO MATTIOLI, La Stampa 27/4/2012, 27 aprile 2012
Mentone si scopre poco francese “Via cartelli e insegne in italiano” - Tutta colpa di Cavour che rinunciò a Nizza e dintorni e di Mussolini che non riuscì a riprenderli
Mentone si scopre poco francese “Via cartelli e insegne in italiano” - Tutta colpa di Cavour che rinunciò a Nizza e dintorni e di Mussolini che non riuscì a riprenderli. Nel lotto c’è anche Mentone, anzi Menton, dove è ufficialmente scoppiata la guerra della lingua. Si tratta della più italiana delle città francesi, anche perché è proprio sul confine, quindi l’Italia inizia dove finisce Mentone (e viceversa). E quindi ci vige un bilinguismo di fatto, tipo Alto Adige: i cartelli «pubblici» sono ovviamente in francese, quelli privati anche in italiano. Però, e qui è il problema, tanti sono soltanto in italiano, anche perché molti gestori e moltissimi clienti, forse la maggioranza in entrambi i casi, sono appunto italiani. Se chi vende è italiano e chi compra idem, ha poco senso usare il francese (e magari fa pure vendere e comprare di meno). Però la legge è legge. Nel caso, la famosa o famigerata legge Toubon del ‘94 sulla tutela della lingua, la stessa per cui sui manifesti pubblicitari il solito slogan in inglese è obbligatoriamente accompagnato da un asterisco che rimanda alla traduzione francese. Adesso il deputato-sindaco di Mentone, Jean-Claude Guibal, targato Ump, il partito di Sarkò, ha deciso di farla applicare: «Alla fine - spiega cortese ma determinato - siamo in Francia. E in Francia un restaurant non è un ristorante, un hôtel non è un albergo e un café non è un caffè. Liberissimi poi tutti di battezzare il loro esercizio come preferiscono. Mi sta benissimo che ci sia un ristorante che si chiama “I paparazzi”, come in effetti c’è, però dev’essere indicato come “Restaurant I paparazzi”». Morale: il sindaco ha emanato una grida che ne richiama un’altra di qualche anno fa, puntualmente disattesa. Gli esercenti hanno quindici giorni di tempo per mettersi linguisticamente in regola. «Poi controlleremo e, nel caso, faremo le multe», minaccia monsieur Guibal per interposto «Nice-Matin». Questo deputato-sindaco, raggiunto al telefono, si rivela poi simpaticissimo, quindi non lo si può nemmeno accusare dell’abituale sciovinismo francese. «Che Mentone sia la città più italiana di Francia mi fa piacere, lo scriva. Però non è che qui vengano solo turisti italiani. Arrivano anche dei francesi, per esempio del Nord, che magari non capiscono». Insomma, degli eventuali «ch’tis» che calano dal remoto Pas-deCalais potrebbero anche non afferrare che «ristorante» vuol dire «restaurant» (oddio, in effetti da come tutti si fanno beffe, da Parigi in giù, della presunta ottusità di chi abita da Parigi in su, è anche possibile...). Poi il sindaco-deputato filosofeggia: «E poi, diciamolo, se io vado all’estero voglio sentirmi all’estero. Quando vado in Italia, preferisco leggere le insegne in italiano, altrimenti mi sembra di essere rimasto in Francia». Il ragionamento non fa una grinza, ma non le sembra di essere un po’ troppo fiscale? «No, la legge è legge. E oltretutto riprende una precisa disposizione della Costituzione». Guibal non teme nemmeno di irritare Carlà, che in fin dei conti è un po’ come Mentone, la più italiana delle francesi. E poi spiega che il fatto che qui domenica scorsa Marine Le Pen abbia preso il 25% dei voti non c’entra nulla con la sua crociata: «Bastasse questo...», sospira. Già. Ma, comunque vada, sarà un insuccesso. Che sul neon ci sia scritto «restaurant» o «ristorante», la città resta un pezzo d’Italia fuori dall’Italia. «Figurati - spiega Romain Maksymowycz, il giornalista di “Nice-Matin” che ha raccontato lo strano caso della guerra delle insegne - che io per lavorare devo parlare un po’ di italiano. Almeno durante i periodi di affluenza turistica, a Mentone lo si sente più del francese».