Ulrich Fichtner, il Fatto Quotidiano 27/4/2012, 27 aprile 2012
DAL NULLA AL RING
Abner Mares è cresciuto a Hawaiian Gardens, una cittadina tra le più malfamate alla periferia di Los Angeles. Per un bambino come lui, entrato illegalmente negli Usa dal Messico con sua madre e cinque fratelli, tutte le strade portavano al carcere, all’ospedale o al cimitero. All’epoca le bande di latino-americani e di neri erano in perenne stato di guerra. Oggi a bordo della sua Jaguar XF percorre il suo quartiere con l’aria di una guida turistica annoiata. “Lì hanno ammazzato un mio amico”, mi dice indicando una casa. “E lì ne hanno accoltellato a morte un altro”. Abner parla di sparatorie, scazzottate, rapine a mano armata, furti. La sua voce non tradisce emozione come se non riuscisse ancora a capire come mai è ancora vivo o non è diventato un killer. Abner Mares Martinez ha 26 anni. Il 21 aprile, battendo a El Paso, Texas, Eric Morel, si è confermato campione mondiale WBC per la categoria Supergallo. In Messico, suo paese natale, Mares è famosissimo e i tifosi di pugilato sono convinti che abbia tutto per diventare una leggenda, il nuovo Chavez o il nuovo Ruben Olivares.
LA STORIA di Mares non è diversa da quella di molti immigranti. Oggi Mares vive come un americano, ma si sente messicano. D’altro canto per molto tempo gli Stati Uniti non sono stati carini con lui. Sua madre era una “clandestina” che parlava solo spagnolo e poteva fare solo miseri lavori. Suo padre, che aveva raggiunto la famiglia, non era mai in casa. Per anni Mares ha dormito sul pavimento. Una volta la settimana perlustravano il retro dei supermercati e i cassonetti dove trovavano spesso confezioni scadute di carne, latte o formaggio. “Per noi era come un giorno di festa”, ricorda Mares. Ben presto quelle stesse strade divennero il campo di battaglia delle bande di giovani delinquenti e Mares finì per essere “arruolato”: era giovane, veloce, magro ma forte.
Oggi Mares si allena ogni giorno in una palestra a Maywood, a 25 minuti di auto dal centro di Los Angeles. La lingua ufficiale è lo spagnolo e non mancano le ammiratrici, così come non mancano curiosi, appassionati e organizzatori in cerca di talenti. Il manager di Mares, Frank Espinoza, non ha dubbi: “È un grande. Forse sarà il primo peso gallo a riunificare il titolo mondiale della categoria”. Mares sorride e quasi sussurrando commenta: “Bè, sarebbe bello!”. Lo allena Clemente Medina: “Forse non ha la classe di alcuni grandi del passato, ma è velocissimo. Le gambe sono come molle e, ciò che più conta, ha il cuore del pugile”. Il suo ruolino di marcia è impressionante: 24 vittorie, di cui 13 per K.o., e nessuna sconfitta. Quando l’estate scorsa è diventato campione del mondo la sua vita è cambiata: borse di 200.000-300.000 dollari per match, Tv al plasma, vestiti firmati.
VIVE A Lakewood dove i suoi vicini sono per lo più bianchi, asiatici e qualche nero. Non odia più i neri: “Siamo tutti esseri umani. Tutti vogliamo essere rispettati”, dice Mares. Sua moglie Nathalie, seduta accanto a lui, è messicana e parla solo spagnolo anche se vive negli Usa da anni. Abner non vuole che lavori: “Mi occupo io della famiglia”, dice. Hanno due figlie e mentre guarda la Tv con la neonata in braccio, Abner sembra il classico uomo che ha realizzato il “sogno americano”. Ma lui non è d’accordo. Attribuisce il merito del successo a se stesso, non al paese in cui vive. In un certo senso pensa di avercela fatta malgrado e non grazie agli Stati Uniti. Quando la polizia lo ferma – accade di frequente – non gli chiede la patente e il libretto, ma di chi è la macchina. “Ogni volta debbo dare le stesse spiegazioni. Per un poliziotto bianco è inconcepibile che uno come me abbia un’auto di grossa cilindrata. È assurdo in un paese libero”.
Nel 2004, a 18 anni, ha avuto l’onore di fare il portabandiera per il Messico alle Olimpiadi di Atene dove è stato sconfitto al primo turno in un match molto tirato dal più esperto ungherese Zsolt Bedak. “Mi ero allenato per quattro anni. Ero distrutto. Volevo vincere una Medaglia ed ero certo di potercela fare”, ricorda con rimpianto. La svolta della sua carriera la deve a De La Hoya. Il grande campione lo incoraggiò e lo lanciò. Nel 2008 subì il distacco della retina e corse il rischio di non poter più salire sul ring. Ma anche in quella circostanza si rivelò un vero fighter. E quando ha ripreso a combattere ha dimostrato di essere più forte di prima. Per i suoi connazionali è già un grande che si appresta a diventare una leggenda.
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by The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto