FRANCO BRUNI, La Stampa 27/4/2012, 27 aprile 2012
LE SOLUZIONI SEMPLICI SONO UN BLUFF
La crisi economica internazionale in corso da cinque anni sarà ancora lunga e difficile. Si può viverla come occasione per cambiare e migliorare; o come una disgrazia da soffocare al più presto, per tornare come prima: finendo così per peggiorarla. La crisi italiana è parte di quella globale. Ha aspetti peculiari, alcuni più gravi, altri meno della media mondiale, ma il morbo è lo stesso.
La crisi nasce da due patologie, fra loro collegate: l’eccesso di debiti e l’inadeguata organizzazione degli apparati produttivi privati e pubblici, cioè l’uso inefficiente delle risorse.
Negli anni precedenti la crisi, in quasi tutto il mondo si è perso il controllo dei debiti privati e pubblici, cioè del credito a famiglie, imprese, intermediari finanziari, enti pubblici e governi. Un fenomeno quantitativamente impressionante, consentito da insufficiente vigilanza finanziaria e tassi di interesse troppo bassi. Il primo a scoppiare è stato l’indebitamento delle famiglie statunitensi; poi è emerso il resto, soprattutto gli eccessi dei debiti dei governi e degli intermediari bancari e finanziari. I troppi debiti aumentano il rischio di fallimenti, rendono fragile l’economia mondiale e gravano sul suo futuro.
La facilità di indebitarsi ha nutrito la seconda malattia, nell’economia reale: si sono prodotte cose sbagliate in modi sbagliati. Non sono state corrette inefficienze e modelli di business superati dai tempi. Si sono finanziate spese inutili, private e pubbliche, mantenute in vita iniziative da interrompere, rinviate riforme, distratti fondi verso destinazioni inopportune o illecite. Il credito facile ha indebolito l’attenzione alla qualità e alla sostenibilità delle scelte di consumo e investimento, alla lungimiranza e alle effettive capacità dei decisori privati e pubblici.
Inefficienze e miopie sono state forti proprio quando, a cavallo del cambio di secolo, si sono intensificati due fenomeni che avrebbero richiesto la massima attenzione a riorganizzare le cose, ad accrescere con lungimiranza la produttività delle risorse. I due fenomeni sono stati la caduta delle barriere economico-politiche alla globalizzazione, che ha sfidato la competitività di intere parti del mondo e ne ha accresciuto l’interdipendenza, e l’accelerazione di alcuni progressi tecnici, che hanno sconvolto la domanda di competenze e le strategie di gestione. Globalizzazione e progresso tecnico, di per sé cose ottime, gestite in modo inadeguato, hanno finito per rendere il mondo ancor più fragile, alimentando crisi, incertezze e ingiustizie, come l’aumento delle diseguaglianze nelle distribuzioni dei redditi, avvenuto proprio quando si sono ridotte le distanze fra i gradi di sviluppo di varie parti del mondo.
Se sono queste le radici della crisi, pensare di uscirne alla svelta serve solo a prolungarla, come è successo finora. Vanno diminuiti i debiti, privati e pubblici e riorganizzate le produzioni, private e pubbliche. Per ridurre il rapporto fra debiti e capitale proprio, le banche devono selezionare i prestiti e non affidare chi non è efficiente e innovativo. Per ridurre i debiti delle amministrazioni pubbliche occorre riformarle a fondo, rivoluzionando priorità e burocrazie. Persone e capitali devono cambiare i modi di produrre, spostarsi verso nuove produzioni, in nuovi luoghi, e poi prepararsi a cambiare di nuovo, per adattarsi a un mondo che muta continuamente. Il potere di governare le decisioni economiche, sia nelle imprese private che nella politica e nel settore pubblico, va ridistribuito, con nuovi incentivi e nuovi controlli. Molti imprenditori, amministratori, regolatori, devono perdere potere e molti guadagnarne.
Altro che «stimolare la domanda» o altre facili magie! Le politiche per la crescita, checché ne pensino Camusso o Sarkozy, sono altrettanto «rigorose» del rigore fiscale. Supponiamo si riesca a finanziare speciali progetti di spesa europei, con project bonds, rafforzando la Bei e, come sarebbe auspicabile, rendendo più favorevole il trattamento di certi investimenti pubblici nella disciplina di bilancio comunitaria: ciò porta vera crescita solo se aiuta a fare riforme che siano severe con le inefficienze e le protezioni corporative. Quel che serve per uscire dalla crisi è tecnicamente, socialmente e politicamente difficile. Va fatto gradualmente, per farlo bene, ma con determinazione e scadenze chiare, sia in politica che nelle imprese. Serve convergenza d’intenti, solidarietà e cooperazione, all’interno di ogni Paese e a livello internazionale. Va evitato l’opportunismo di singole parti politiche che trovano nella crisi l’occasione per farsi paladine di chi, in quel momento, sta pagando di più i costi del cambiamento. Il litigio politico, bipolare o multipolare che sia, va contenuto, alla ricerca della convergenza necessaria per ripartire tutti con meno debiti e più efficienza. E’ vero che le cose possono esser cambiate in modi diversi, con costi e benefici diversi per le varie parti: ma i cambiamenti più importanti sono destinati, col tempo, ad avvantaggiare la società nel suo insieme. L’idea che ci sia un «interesse collettivo» da perseguire va presa sul serio, non come un’arma retorica contro qualcuno.
Va svelato il bluff di chi magnifica soluzioni «semplici», scorciatoie per tornare come prima. La strada è faticosa e lunga e la meta è un’economia diversa da quella che è entrata in crisi. Con ciò non conviene piangere sui tempi duri «che non finiscono mai»: serve piuttosto un po’ di entusiasmo, per incoraggiare l’azione collettiva. I costi di oggi saranno vantaggi di domani, la crisi è un’occasione per rendere l’economia e la politica più giuste ed efficienti. I leader nazionali e internazionali ce lo ricordino, ci aiutino a trovare questo entusiasmo, anziché illuderci che la crisi può finire presto e a buon mercato, basta che vinca la parte giusta, quella con la bacchetta magica.