Lucio Caracciolo, la Repubblica 29/4/2012, 29 aprile 2012
VITTORIA DI OBAMA ALLA GUERRA DEI MEDIA
LE GUERRE di oggi si vincono prima nei media, poi sul campo. Gli strateghi pensano a come conquistare il supporto del proprio pubblico e a come scompaginare cuori e menti del nemico, sapendo che di qui parte ogni percorso di vittoria. Più di tutti ne sono consapevoli gli Stati Uniti. I quali hanno digerito la lezione del Vietnam: il disastro militare fu dovuto soprattutto all’incapacità (impossibilità?) di vendere agli elettori il senso di quella sanguinosa campagna, i cui effetti sulla psiche americana non sono mai stati del tutto assorbiti. Consapevole di questo, il presidente Obama si è dedicato a disinnescare la miccia afgana.
Non potendo vincere la guerra, almeno ha impedito che una campagna piuttosto disastrosa sul terreno - con Washington costretta a trattare con i Taliban e gli altri insorti che non riesce a debellare - finisse per produrre una sindrome depressiva nel suo pubblico, dal quale a novembre dovrebbe essere rieletto alla Casa Bianca.
Obama sa che di norma le elezioni non si vincono sulla politica estera. Ma qualche volta le si possono perdere, come capitò a un suo sfortunato predecessore democratico, Jimmy Carter.
Salito quindi alla presidenza con l’obiettivo di chiudere senza troppo disonore né clamore due disastri militari, l’Iraq e l’Afghanistan, Obama ci sta riuscendo grazie alla capacità di influenzare i grandi network televisivi e la stampa che conta.
Per far questo ha dovuto prima convincere i capi militari che gettare altri soldati in quelle paludi belliche era insensato e pericoloso. Insensato sotto il profilo strategico, pericoloso per la sua rielezione. Ma insieme ha dovuto costruire, con l’aiuto piùo meno consapevole di media pur autorevoli, una "narrazione" sufficientemente positiva. Obiettivo: spiegare al pubblico americano e al mondo che Stati Uniti e alleati si stanno disimpegnando dalla trappola afgana, affidando le chiavi del paese al legittimo governo di Kabul, alla sua polizia e alle sue Forze armate, di cui si enfatizzano i progressi in termini di efficienza e disciplina, anche quando non corrispondono affatto alla realtà. Protagonisti di questa "narrazione" ad uso mediatico sono stati i capi militari, a cominciare dal generale Petraeus. Il quale è stato presto rimpatriato e spedito a comandare la Cia, per frenarne le ambizioni ritenute eccessivamente politiche alla vigilia di un confronto elettorale in cui i repubblicani erano disperatamente alla ricerca di un candidato prestigioso da opporre a Obama.
In questo gioco di specchi fra poteri politico, militare e mediatico, il rischio è che i decisori finiscano per credere alla loro stessa propaganda.
Tanto più suasiva in quanto indiretta, riprodotta da media prestigiosi come il New York Times o la Cnn, e non rozza espressione delle burocrazie statali, come nei regimi autoritari. Occorre sempre trovare un punto di equilibrio tra "narrazione" e realtà. Bush junior non seppe farlo, trascinando l’America in una crociata che ne ha incrinato la credibilità su scala globale e ne ha accelerato un declino che poteva essere meglio gestito. Obama ci sta riuscendo, grazie alla sua scaltrezza politica. Chi ne esce peggio, alla fine, sono i media che si abbeverano alle fonti di Washington rischiando di farsene manipolare. Una lezione che vale per tutte le democrazie: quando i mezzi di comunicazione abdicano alla loro funzione critica, a soffrirne è non solo la loro credibilità, ma il senso della politica e la legittimazione delle istituzioni.