Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 27 Venerdì calendario

IL MEA CULPA DI MURDOCH: "HO FALLITO"

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA - Mea culpa, mea culpa, mia minima colpa: in fondo sono una vittima anch’io. È il succo della seconda e ultima giornata di deposizione di Rupert Murdoch di fronte alla commissione d’inchiesta governativa sul Tabloidgate. Se il giorno prima il più grande editore del mondo aveva dato spettacolo, aprendo una breccia sui suoi trentennali rapporti con i leader britannici dalla Thatcher a Cameron - indicando tra l’altro di aver incontrato l’attuale premier sette volte, non due come sostiene Downing Street, anche se poi dal suo quartier generale hanno ritrattato (gli incontri figurano nelle agende ma alcuni di questi non sarebbero a due) ieri l’81enne tycoon è stato chiamato in causa per le intercettazioni illecite dei suoi giornali in Gran Bretagna. E di colpo l’uomo soprannominato lo Squalo piega la testa come un agnellino, facendo un’ammissione senza precedenti: «Ho sbagliato, mi dispiace, ho fallito». Ma lo scandalo, insiste, è colpa dei suoi dirigenti, che glielo hanno tenuto nascosto, non sua. E conclude con un peana della carta stampata, lamentando che entro venti anni non ci saranno più quotidiani cartacei, bensì solo «elettronici», sui «telefonini intelligenti» trasformati in «miliardi» di mini-tabloid.

Di chi è la colpa delle intercettazioni illecite al News of the World, il tabloid domenicale più venduto del Regno Unito, principale imputato della vicenda? Alla domanda postagli dall’avvocato Robert Jay, che conduce l’inchiesta, Murdoch risponde in tono contrito: «Penso che alcuni alti dirigenti del giornale abbiano coperto lo scandalo. Ne giudico colpevoli uno o due.

Non c’è dubbio che c’è stato, da parte loro, un cover-up, un tentativo di occultamento. Non mi hanno riferito come dovevano».

Uno dei due a cui allude l’editore, Tom Crone, smentisce recisamente: «È una spregevole menzogna», commenta più tardi. Ma in aula l’interrogatorio va avanti.E lei, come presidente del gruppo, insiste l’inquisitore, non si sente in qualche modo responsabile? «Io sono colpevole di non avere prestato abbastanza attenzione al News of the World », replica Murdoch. «Ero più interessato al Times, al Sunday Times, avevo più a cuore altri giornali. È stata un’omissione e posso solo chiedere scusa a tanti, inclusi gli onesti giornalisti che hanno perso il lavoro quando abbiamo chiuso il News of the World. Ma mi dispiace molto. Devo ammettere che ho fallito».

Perché, chiede l’avvocato, ha chiuso il News of the World? «Perché quando è scoppiato lo scandalo mi ha preso il panico. Ma sono contento di averlo chiuso. Mi spiace di non averlo chiuso anni prima. Ha lasciato una grave macchia sulla mia reputazione». Il magnate afferma che il suo gruppo è cambiato, che oggi i suoi tabloid fanno un giornalismo popolare ma rispettoso delle regole. E parlando del giornalismo fa una previsione: che quello cartaceo abbia i giorni, o perlomeno gli anni, contati. «Io credo che i giornali, con tutti i loro difetti, siano di grande beneficio alla società. Garantiscono la democrazia e noi vogliamo democrazia, non autocrazia. Ma è arrivato Internet, si è sviluppato come fonte di notizie e oggi è dentro al nostro spazio vitale: è il motivo del calo delle vendite dei giornali. Internet rappresenta anche grandi opportunità, non dico di no. Ma per i giornali di carta è una tecnologia distruttiva. Io amo i quotidiani, davvero.

Ma fra venti anni potrebbero non esserci più giornali di carta.

Sono pronto a scommettere che ci saranno solo giornali digitali.

E allora avremo miliardi di tabloid: uno per ogni smart phone in mano alla gente».