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 2012  aprile 27 Venerdì calendario

COME SALVARE I LEADER DEL FUTURO

LA PAROLA élite viene dal verbo latino eligere, che sta per scegliere, eleggere. Le élite sono gli Eletti, coloro i quali guidano le masse. Ebbene chi sono nel XXI secolo i leader dell’economia di un Paese? Certamente gli imprenditori di talento, quelli descritti da Schumpeter i quali, innovando soprattutto dal punto di vista tecnologico, distruggono il vecchio ordine oppure quelli tratteggiati da Kirzner, persone che fiutano bisogni che qualcuno non soddisfa e sono lesti a cogliere l’occasione. Tuttavia, se si eccettuano i talentuosi, le élite sono una classe dirigente allargata di manager, ricercatori, professionisti, prodotto di un sistema che prima di tutto è educativo e familiare.

Prospera chi riesce ad attirare the best and brightest nella propria orbita (esercizio nel quale gli Usa sono ancora largamente primeggianti). Rimane indietro chi non è un polo di attrazione e addirittura non riesce a trattenere la sua meglio gioventù.

Purtroppo l’Italia è da anni piagata dal fenomeno conosciuto come la "fuga dei cervelli", che sta impoverendo le energie intellettuali del Paese privandolo proprio di coloro i quali dovrebbero creare ricchezza e lavoro per tutti gli altri. Peraltro, le ultime statistiche dell’Istat dicono che dal 2008 tra gli under 35 si sono persi un milione di posti di lavoro: qualcuno si sorprende se i più dotati (e non solo loro) abbandonano il Belpaese? L’Italia ha già conosciuto questo fenomeno con l’immigrazione interna.

Il nostro Mezzogiorno è ormai quasi completamente depauperato di classe dirigente giovane perché chi ha potuto fin dai tempi dell’Università è andato negli atenei del Centro-Nord, gli altri sono scappati appena ottenuto l’agognato diploma al Sud.

Malauguratamente, la tendenza si è ora estesa all’intero Paese e il numero di laureati che lo abbandona è in aumento allarmante. Alcune stime (Confindustria) calcolano in 400 mila il numero di laureati italiani all’estero (mentre solo 57 mila laureati dei Paesi Ocse risiedono da noi e le università italiane sono ultime per presenza di stranieri) e in 4 miliardi di euro la perdita secca derivante dal fatto che i ricercatori italiani espatriati hanno depositato i loro brevetti all’estero (ICom). D’altronde, dopo un anno dalla laurea la retribuzione media in Italia è di poco meno di 1.100 euro mentreè all’estero di 1.568 euro con picchi in nazioni come gli Stati Uniti (3.000 euro). Dopo 5 anni la forbice si allarga: 1.250 euro in Italia, 2.250 nei Paesi Ocse (cioè quelli sviluppati). Uno strabiliante 60% di chi è laureato da almeno 6 mesi pensa che per mettere a frutto le proprie competenze dovrà emigrare all’estero in via definitiva! Come frenare questa emorragia? Come ammoniva il grande premier conservatore britannico del XIX secolo, Disraeli, "non esistono soluzioni facili per problemi difficili". L’Italia dovrebbe riformare il sistema scolastico ed universitario iniettando robuste dosi di concorrenza, liberalizzare il mercato del lavoro (ma ormai, dopo il pannicello caldo della riforma Monti-Fornero, questa speranza la possiamo accantonare), abolire la progressione di carriera in base all’anzianità, cacciare lo Stato e la politica, fonte di raccomandazioni, favoritismi e sprechi, dall’economia. Tutte cose che richiedono anni.

L’unico mezzo a disposizione che possa mandare un segnale forte e chiaro ed entrare in vigore in breve tempo è perciò quello fiscale. Gli strumenti oggi in vigore sono una serie di agevolazioni previdenziali per le assunzioni di giovani o di apprendisti e una legge che concede provvisoriamente ai lavoratori qualificati che rientrano dall’estero un regime fiscale agevolato triennale con aliquota massima del 30% per gli uomini e del 20% per le donne (con un tocco di inutile differenziazione rosapopulista). Nel primo caso si possono avere effetti distorsivi, in quanto sono favorite le imprese che assumono e non i giovani professionisti o imprenditori. Nel secondo caso, una volta che un bravo laureatoè fuori, ha un lavoro soddisfacente e magari nuovi legami affettivi è più difficile farlo tornare indietro.

Bisogna invece incoraggiare sia l’ingresso di giovani ingegni da fuori, sia il trattenimento dei nostri qui (il che non vuol dire che non d e b b a n o f a r s i esperienza all’estero, cosa sana e formativa). Allora, ci vuole una terapia d’urto, un’imposta sul reddito unica del 10% per tutti i giovani dai 24 ai 30 anni. Chi in quel periodo frequenta un master o un dottorato (le borse non sono tassate) potrà recuperare il beneficio in futuro come credito di imposta. Stiamo parlando di circa 4,2 milioni di persone di cui oggi probabilmente solo 2,6/2,7 milioni stanno lavorando. Coprire le minori entrate fiscali dovrebbe essere semplice anche per un esecutivo restio a tagliare la spesa pubblica. Se solo si creassero 200 mila posti di lavoro in più, questo creerebbe entrate aggiuntive sul fronte delle imposte dirette. Inoltre il maggior reddito disponibile per tutti rimpinguerebbe sia le imposte indirette (più spendo, più Iva incassa lo Stato) sia dirette (i profitti di chi vende più beni e servizi ai giovani sono a loro volta tassati). Dopodiché, un miliardo facile lo si potrebbe ricavare tagliando i costi della politica e altri 2 diminuendo di meno del 5% gli aiuti alle imprese (che oggi ammontano a 43 miliardi l’anno).

Il provvedimento sarebbe neutro e gioverebbe direttamente ai giovani, soprattutto quelli che fin da subito riescono ad avere salari decenti (e quindi più tassati) e sono i più attratti dalle sirene straniere. Sarebbe un segnale forte che l’Italia scommette sui propri rampolli più capacie che come Paese è disposto a rinunciare a qualcosa per loro: la crisi delle nuove generazioni è anche di sfiducia nell’immobilismo gerontocratico del Paese e nella sua mancanza di prospettive.

La flat tax da sola non basterebbe, ma è immediata, con effetti reali, facile da applicare, da propagandare e da comprendere: tutte caratteristiche che i nostri giovani di talento non trovano nel Belpaesee quindiè ora di fargli cambiare idea. Concretamente.