Raffaele Romanelli, "Centralismo e autonomia". Sta in Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di Raffaele Romanelli, Donzell 1995, 1 maggio 2012
Autonomie locali contro centralismo nei primi anni dell’Unità d’Italia
2. Come si arrivò all’unificazione Assaggio del problema con il Lombardo-Veneto, il primo stato conquistato. Applicare la legge sarda, quella lombarda o una terza legge? Il Lombardo-Veneto aveva giù una sua struttura decentrata (autonomie) che pur appartenendo alla famiglia dell’assolutismo ed essendo quindi imparentata con quella piemontese era diversa (matrice austriaca e non francese). Differenza principale: in Piemonte vigeva il principio dell’uniformità nel LV no. I comuni grandi e medi erano governati da funzionari scelti dall’alto, quelli piccoli da un «convocato generale degli estimati, cioè da un’assemblea dei possidenti censiti (in sostanza i proprietari terrieri), la quale eleggeva una deputazione di tre membri, che doveva deliberare in presenza del commissario distrettuale». Non era poi troppo diverso da quello piemontese, ma i lombardi ne esagerarono le caratteristiche di libertà per ragioni politiche. Le quattro lettere di Cattaneo indirizzate al periodico “Il Diritto” (1864). D’altra parte anche piemontesi, toscani ed emiliani si mostrarono gelosi della loro autonomia, «tenevano anch’essi a difendere le forme locali di autogoverno degli ottimati dalla minaccia del centralismo dirigista di stampo “giacobino”» (132). Durante le annessioni dell’Italia centrale l’applicazione della legge sarda fu intesa come provvisoria. Giugno 1860: si istituisce una “Commissione temporanea di legislazione”, i cui lavori sono introdotti da una nota di Farini sulle autonomie in cui si propone l’istituzione della regione «come organismo di natura ambigua, dotato di competenze meramente amministrative, senza rappresentanza elettiva diretta. Nel marzo dell’anno successivo (marzo 1861) Minghetti presentò un disegno di legge in cui si delineava l’introduzione sperimentale di consorzi permanenti di province». Idea di conservare qualche tratto delle amministrazione specifiche precedenti e di dar vita a organismi regionali o superprovinciali. «Non vogliamo la centralità francese […] Dall’altra parte non vogliamo neppure una indipendenza amministrativa come quella degli Stati Uniti d’America, o come quella della Svizzera» (discorso qui senza data). Ma «lo sviluppo del seme del decentramento fu arrestato dal prorompere della questione meridionale» venuta al pettine dopo la conquista di Garibaldi (si notino le date sopra: l’autonomia pensata quando il Sud ancora non c’era). «Con l’avanzata garibaldina “apparve subito un altro orizzonte”, come scrisse allora uno scrittore lombardo, Tullio Massarani: anziché lunga esperienza di virtù civiche e tradizioni provinciali consolidate, “plebi che si destano attonite, figure omeriche che giganteggiano sulla turba” e dunque “magnifiche individualità e grandi vuoti”. Mancava in altre parole un tessuto sociale idoneo all’autogoverno, e già il riformismo borbonico si era scontrato con il problema delle amministrazioni locali». Carlo Afan de Rivera: «Il comune è un corpo morale peggiore di tutte le mani morte, perché amministra senza interesse e dissipa per opera de’ più influenti […] Erano interminabili e sventuratamente non di rado fondati i ricorsi de’ privati cittadini contra gli amministratori comunali accusati di peculato, di trascurataggine, d’illeciti favori di collusione con gli affittatori e gli appaltatori». Netto mutamento d’opinione sui temi dell’autonomia, centralismo obbligato. Ricasoli, nell’ottobre del 1861, firmò i decreti che abolirono il regime transitorio delle luogotenenze istituite a Firenze, a Napoli e a Palermo, trasferì le loro funzioni ai poteri centrali ed estese a tutta la penisola la legge sarda del 1859. «Dopo di allora il percorso che portò alla legge del 1865 praticamente non ha storia: fu solo il palcoscenico su cui fece le sue prove l’opinione pubblica del tempo. A coltivare l’idea del decentramento fu semmai l’opinione locale del Mezzogiorno». Erano però autonomisti, in modi diversi, sia i reazionari che i democratici.». Cavour, avendo constatato che l’esclusione dal voto degli analfabeti tagliava fuori la stragrande maggioranza della popolazione, pensò che si sarebbe dovuto allargare l’elettorato «se non si vuole che i comuni di quella parte d’Italia cadano sotto la tirannia dei dottoruzzi di villaggio, la peggiore di quante se ne conoscano». Salvemini: «Nel Mezzogiorno gli esigui nuclei di borghesi e di piccoli borghesi, prevalentemente intellettuali che fornivano il nerbo del partito liberale e nazionale antiborbonico, si sentivano impotenti a tenere il paese colle loro sole forze contro le rivolte dei contadini […] L’accentramento amministrativo era quindi pei liberali del Mezzogiorno la sola forma sotto cui potessero concepire l’unità nazionale» (134). Ipotesi regionali risultarono inconsistenti: «la diffidenza verso l’uso della libertà, i timori per i pericoli cui poteva andare incontro l’unificazione, e ancora l’estraneità della prospettiva provinciale non statuale dalle esperienze storiche degli italiani, ai quali erano familiari piuttosto il comune da un lato e lo Stato regionale dall’altro, non la provincia». E poi «eventuali regioni sarebbero di fatto coincise con gli antichi Stati» (135). «La scelta del sistema centralistico» dovuta a un «difetto di egemonia sociale». Le ragioni successive dell’autonomismo: quella conservatrice (Minghetti e soprattutto Stefano Jacini) e quella democratica «di ispirazione urbana» (Depretis almeno finché fu all’opposizione). «Il paradosso della classe dirigente italiana che è durevolmente favorevole all’autonomia locale, ma non la realizza mai […] sono in genere le forze d’opposizione ad agitare la problematica dell’autonomia anche in forme assai radicali che divengono strumento di antagonismo politico globale, salvo ad accantonarla o a ridimensionarne la portata quando, giunte a loro volta al governo, sembrano solo allora riconoscere l’inevitabilità della soluzione centralistica».