Stefano Righi, CorrierEconomia 30/04/2012, 30 aprile 2012
TELEVISIONI. IL MISTERO DEI NUOVI TELESPETTATORI - V
isioni deformanti. Il piccolo schermo negli Stati Uniti si restringe di giorno in giorno e in Italia, al contrario, si allarga. C’è un oceano tra i due modi di fruire lo spettacolo televisivo: tra metà marzo e metà aprile i principali network statunitensi hanno registrato perdite di spettatori nella fascia dalle 20.30 alle 22.30 (il prime time) che variano dal 3 per cento delle Nbc al 21 per cento della Abc (vedi pagina 3). Il New York Times ha commentato il fenomeno come Il mistero dei telespettatori spariti.
Una fuga verso nuove forme di fruizione televisiva — gli americani dedicano mediamente 33 ore alla settimana alla televisione, ma per 150 milioni di loro lo schermo preferito è quello del pc — che fa scattare l’allarme degli analisti: gli Usa erano l’unica tra le grandi economie a non aver ancora registrato alcun calo dell’audience.
Diverse fruizioni
«Gli Stati Uniti sono sempre avanti a noi di qualche anno — sottolinea Flavia Barca, responsabile dell’Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli — e lì è arrivato a maturazione un effetto di cui in Italia si vedono i prodromi, ovvero la fruizione dello spettacolo televisivo con modalità diverse: sul pc e sul tablet, in orari personalizzati o su piattaforme sagomate su esigenze personali come Netflix».
I dati elaborati dalla Fondazione Rosselli su rilevazioni dell’Auditel sono sorprendenti: dal 2006 al 2010 gli italiani hanno mediamente dedicato venti minuti in più ogni giorno al piccolo schermo, passando da 238 a 258 minuti, ben oltre le quattro ore. Nello stesso periodo, nel prime time, ovvero nella fascia con maggior numero di telespettatori e quindi più ambita da parte degli investitori pubblicitari, si è registrato un numero considerevolmente superiore di telespettatori: erano 24,4 milioni nel 2006, sono diventati 25,1 milioni cinque anni dopo, con un incremento medio di 700 mila spettatori.
«L’ascolto è aumentato nel corso degli anni — dice Barca — la platea aumenta, ma il pubblico viene spalmato su un numero superiore di canali e la fruizione è frammentata, personalizzata. Ne risentono soprattutto le reti ammiraglie: Rai Uno è passata da uno share del 23,6 per cento nel 2001 al 19,02 per cento del 2011 (-4,6 per cento), Canale 5 è scesa dal 24,09 per cento del 2001 al 17,06 del 2011, con un calo ancor maggiore: quasi sette punti percentuali».
Questa fuga dalle reti ammiraglie ha trovato sfogo nella pluralità dei canali del digitale terrestre e soprattutto nell’offerta di Sky. «Nel decennio di osservazione — dice Barca —, oltre alla crescita di La7, il fenomeno più rilevante è stato l’importante aumento registrato dai programmi satellitari, la cui audience è passata dal 2,4 per cento al 10,7 per cento attuale». Un boom che si deve soprattutto a Sky e che si riassume nella crescita dell’offerta: più canali, qualità di contenuti e di tecnologia, riuscendo a colpire interessi sempre più settoriali e disegnando una strada percorsa poi, con declinazioni diverse, anche dall’offerta a pagamento di Mediaset Premium.
Maggiori differenze
Quella televisione che Renzo Arbore cantava come «nuovo focolare» della famiglia italiana, non esiste più. Anzi. «La fruizione dello spettacolo televisivo aumenta il gap generazionale. All’apparecchio televisivo — sottolinea Barca — si affiancano i pc, i tablet, You Tube, Facebook. Così non solo si assiste a una diversità di generi di consumo che sono cambiati nel tempo, ma è mutata anche la tipologia. In Italia oggi si sono delineate tre fasce di telespettatori: una più tradizionale che tiene la tv sempre accesa; una seconda fascia più esigente che sceglie i propri programmi e il modo di vederli, caratterizzandosi per un rapporto più attivo con il mezzo; infine una fascia totalmente nuova, che cerca l’audiovisivo su altri mezzi. I ragazzi più giovani hanno difficoltà a vedere un programma televisivo di un’ora e mezza senza interagire con altri strumenti di comunicazione. È un fenomeno iniziato nel 2000 e che oggi ha ricadute sociali ed economiche, perché va ad incidere sui costi dei singoli spot. Come pure è evidente che lo spettatore è sempre meno disposto ad appassionarsi a qualcosa con cui non riesce o non può interagire».
Verso il «my time»
Proprio la programmazione cinematografica ha inciso sulle dinamiche di ascolto. In principio c’era il sacrale film del lunedì sera sul Primo canale della Rai. «Fino a dieci anni fa — sottolinea Barca — vedevamo più cinema in televisione, poi abbiamo assistito a una progressiva scomparsa. Cinema e Sport sono diventati il materiale pregiato delle reti a pagamento ed è a questa scomparsa che si può collegare l’inizio della disaffezione dei telespettatori. Oggi la chiave del prime time è la fiction, le produzioni originali, che però negli ultimi anni hanno subito la crisi. Sono strumento di pregio e fidelizzazione del brand, ma ce ne sono sempre meno e concentrate nelle fasce di maggior visione, perché costano molto. È per questo che si privilegia nella programmazione attuale l’infotainment, una formula dai costi più contenuti».
La strada appare tracciata, malgrado l’impennata italiana. Lo dimostrano proprio i telespettatori statunitensi: si va sempre più verso una frammentazione dei consumi e una moltiplicazione delle piattaforme. «La sfida — conclude Barca — sarà probabilmente vinta da un prodotto ibrido tra pc e televisione, che permetta di selezionare che cosa più interessa rendendolo visibile in qualsiasi momento». Una televisione liquida, sempre più su misura. Abbandonarsi sul divano e vedere qualsiasi cosa passa in tv sarà un retaggio del passato. Un comportamento quasi riprovevole, perché il passaggio dal prime time al my time appare ormai irreversibile.
Stefano Righi