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 2012  aprile 30 Lunedì calendario

APPLE «PENSA DIFFERENTE». MA NON SULLE TASSE

Campione di vendite, di capitalizzazione (la società Usa di maggior valore), di profitti. Ma anche di contabilità «creativa»: pionieri nell’uso di una tecnica taglia-tasse soprannominata «Double Irish with a Dutch Sandwich». Insomma, una società che «pensa differente» ma non sulle tasse. Ammirata per la genialità delle sue soluzioni tecnologiche,la Apple è meno nota per l’abilità con la quale riesce, legalmente, a pagare pochissimi tributi.
La società fondata da Steve Jobs l’anno scorso ha versato appena 3,3 miliardi di dollari di tributi su 34,2 di profitti: appena il 9,8 per cento. I numeri di questo slalom attraverso agevolazioni ed elusioni — fatto di tappe nei «paradisi fiscali» europei, dall’Irlanda all’Olanda (patrie del sandwich appena citato), ma anche del ricorso ai regimi fiscali agevolati offerti, negli Usa, da Stati come Nevada e Delaware — sono stati pubblicati ieri dal New York Times. Cifre che impressionano, ma che segnalano un problema più ampio: quello dell’elusione generalizzata delle grandi imprese americane e dell’iniquità di un sistema fiscale che negli Stati Uniti premia in misura sproporzionata i ricchi per la loro (a volte presunta, a volte reale) capacità di produrre quantità aggiuntive di reddito e posti di lavoro.
Dal 2006, ad esempio, Apple trasferisce gran parte della sua liquidità e la reinveste attraverso una sussidiaria, la Braeburn Capital, basata a Reno, in Nevada: Stato nel quale la «corporate tax» è zero. Avesse investito dove ha sede, a Cupertino, la Apple avrebbe pagato la tassa californiana che è dell’8,84 per cento.
«Così fan tutti ed è legale» si difende la Apple, che sostiene anche che le sue attività complessive nel primo semestre 2012 porteranno a vari Stati dell’Unione e al governo federale entrate complessive pari a circa 5 miliardi di dollari (conto che non viene dettagliato e che comprende anche le imposte sul reddito pagate dai dipendenti e quelle degli azionisti sui «capital gain». Sul fatto che il vizio sia comune, Apple ha ragione: in Nevada, oltre a quella della società fondata da Jobs, ci sono le sussidiarie di Microsoft, Cisco, Harley-Davidson e decine di altri grandi gruppi. Centinaia di altre società trasferiscono i loro «asset» in Delaware, l’altro paradiso delle agevolazioni fiscali. Quando la Roma Calcio passò agli americani, il primo veicolo usato dai compratori, nell’atto siglato proprio un anno fa, fu la DiBenedetto-AS Roma LLC, una società con sede in Delaware.
Anche in Europa e in Italia molti grandi gruppi utilizzato società olandesi e lussemburghesi per ridurre i loro oneri fiscali, ma il fenomeno riguarda solo alcune attività e ha dimensioni molto più ridotte. In Italia a evadere o eludere sono soprattutto le attività minori. Negli Usa è il contrario: i piccoli pagano (da qui la protesta fiscale cavalcata dai conservatori), mentre i grandi riescono ad beffare l’IRS, il Fisco Usa, trasferendo molti profitti nelle loro filiali «off shore».
Il fenomeno si è di molto dilatato negli ultimi anni con la diffusione delle «tech company» perché l’economia digitale è anche un’economia immateriale che proprio per questo riesce più facilmente a sottrarsi a vincoli territoriali. Wal-Mart, che gestisce catene di supermercati ed è, quindi, più ancorata al territorio, paga un po’ di più, il 24 per cento (5,9 miliardi di dollari di tasse su 24,4 di fatturato). Tempo fa fecero scalpore i dati sull’elusione di Google realizzata attraverso il «paradiso» Irlanda.
Insomma, progressisti e «obamiani» in politica, quando si parla di tasse i geni della Silicon Valley si scoprono improvvisamente grandi fan del capitalismo vecchia maniera, dell’iperliberismo che piace ai conservatori: anni fa Steve Jobs rischiò addirittura la galera per la disinvoltura con la quale Apple aggirò con «bonus» assai anomali le tasse sul reddito dei suoi dirigenti. Oggi a presiedere Google c’è un Eric Schmidt che è stato anche consigliere di Obama e suo collaboratore nella transizione, dopo l’elezione del 2008. Quando, in un’intervista, gli chiesi delle acrobazie fiscali assai poco democratiche della sua società, non usò giri di parole: «Se non usassi tutte le opzioni legali di cui dispongo per ridurre il carico fiscale dell’azienda, gli azionisti mi farebbero a pezzi».
Chi oggi si chiede come la Apple possa continuare ad accumulare utili immensi e assai poco tassati mentre a fianco alla sua sede scuole, piscine e palestre frequentate dai figli dei dipendenti vanno in rovina perché le entrate comunali e dello Stato continuano a calare, è meglio che non si illuda: l’impresa fa del bene producendo ricchezza, ma in un quadro di regole precise.
Di generosità sociale volontaria se ne vede poca, prevalgono semmai gli istinti rapaci. Obama ha le sue colpe, ma ha anche in programma da tempo interventi per chiudere le voragini dell’elusione fiscali. Bloccati da un muro contro muro elettorale cominciato poco dopo il suo insediamento e trasformatosi da tempo in paralisi.
Massimo Gaggi