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 2012  aprile 30 Lunedì calendario

QUANDO UN PRANZO AIUTA A SVELARE I SEGRETI DEI POTENTI

Come capita spesso alle trovate di successo, è nata quasi per sbaglio, da seconda scelta. Nel 1994 il Financial Times — su incauta segnalazione del reparto marketing — pensava di lanciare una rubrica del sabato in cui personaggi famosi avrebbero dovuto essere intervistati al volante di una nuova berlina (caldeggiata da un’azienda inserzionista). Il responsabile di quell’inserto «Weekend», ora in pensione, si ribellò e preferì optare per un’idea apparentemente più banale: un appuntamento fisso, «Lunch with the FT», «a pranzo con il Financial Times», un’intervista a manager e politici e personaggi della cultura in un ristorante scelto da loro, sempre a pranzo, sempre a spese del giornale. Risultato: successone. E adesso che «Lunch with the FT» ha appena compiuto 18 anni da salotto buono delle interviste internazionali, il quotidiano economico britannico ha festeggiato la maggiore età della rubrica con una pagina commemorativa. Ricordando i momenti più celebri e graficizzando il costo di tutti quei pranzi (anche se purtroppo ci vollero nove anni prima che il FT aggiungesse in calce all’intervista anche il conto, con le portate scelte, le bevande, e il prezzo complessivo).
Con salutare senso di autocritica, il giornale spiega come, guardando indietro, non tutte le interviste furono ben scritte, a volte capitò che l’intervistato si ubriacasse (il ciclista — con problemi di doping — David Millar) e addirittura un anziano intervistato morì meno di 24 ore dopo un «lunch» a base di Negroni (il 79enne poeta Gavin Ewart, la vedova del quale chiamò il giornalista la mattina successiva per riferire, con sublime aplomb degno d’un personaggio di P.G. Wodehouse che «ci sono due cose che deve sapere: la prima è che Gavin ieri è tornato a casa felice come non lo vedevo da tempo. La seconda, e la prego di non sentirsi a disagio per questo, è che Gavin è morto questa mattina»).
Sbronze e decessi a parte, la formula funziona perché spesso sono i particolari che fanno l’intervista e durante quei pranzi, in diciotto anni, di piccoli momenti rivelatori ce ne sono stati in abbondanza. Ecco il direttore d’orchestra e pianista Daniel Barenboim che, a piedi nudi e fumando un sigaro cubano, ammette che suo figlio David — manager di un gruppo hip-hop tedesco — non ritiene la musica classica qualitativamente superiore al rap e che a volte, quando si trova sul podio e c’è un passaggio particolarmente complesso per i violoncelli, pensa a come lo avrebbe suonato Jacqueline Du Pré, genio del violoncello e sua moglie morta nel 1987 di sclerosi multipla.
Larry Summers, ex ministro del Tesoro di Clinton, ex rettore di Harvard nipote di due premi Nobel, capo dei consiglieri economici di Obama, famoso per il sarcasmo immortalato anche nel film The Social Network, mentre mangia un’insalata preconfezionata seduto alla sua scrivania parla ammirato del talento di suo figlio per il golf come un qualunque papà orgoglioso. L’archistar Rem Koolhaas sgrida un’assistente perché non ha prenotato un tavolo, Angelina Jolie si presenta con «ciao, sono Angie» e confessa il suo sogno — attraversare il Sahara a dorso di cammello in 28 giorni. Franco Zeffirelli (uno dei non moltissimi italiani invitati a pranzo dal giornale, tra i più recenti ci sono stati Lapo Elkann e Dolce & Gabbana) non pranza e preferisce «un aperitivo» (ma alla fine fuma e basta). L’artista cinese dissidente Ai Weiwei racconta che da bambino fu costretto a aiutare suo padre, intellettuale inviso al regime, a bruciare libri e opere d’arte, e elargisce un aneddoto molto Zen, quasi una parabola, su un uomo che lascia cadere un prezioso vaso Ming «ma a distruggerlo non è l’uomo, è la forza di gravità».
Non mancano i colpi giornalistici: difficile intervistare la regina dell’editoria asiatica Shaw-Lan Wang, potentissima donna d’affari di Taiwan proprietaria anche della casa di moda parigina Lanvin che però accetta di pranzare con il FT «in una stanza senza finestre d’un grattacielo di Taipei». Dove ammette serenamente, a proposito della repressione di piazza Tienanmen, che «devi insegnare alla gente che la legge va rispettata anche se la legge è cattiva» e che tuttora si rifiuta di stringere la mano ai giapponesi perché «uccidono i bambini con le baionette» (riferimento a Nanchino 1937). E Gore Vidal, scrittore di romanzi storici e saggi sull’America, sferzante maestro d’ironia che inorridisce davanti al sentimentalismo, ammette che quando morì il compagno di 53 anni della sua vita non riuscì a versare una lacrima per l’educazione stoica — e repressiva — ricevuta da bambino: «Invidio molto chi è capace di piangere», disse a pranzo con il FT lo scrittore più acido del mondo.
Matteo Persivale