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 2012  maggio 01 Martedì calendario

PISA «Fu il mio primo atto di antifascismo. Inconsapevole, ma riuscito». Armando Petrucci, paleografo, maestro per generazioni di studiosi della scrittura e della lettura antica, siede sul divanetto del salotto

PISA «Fu il mio primo atto di antifascismo. Inconsapevole, ma riuscito». Armando Petrucci, paleografo, maestro per generazioni di studiosi della scrittura e della lettura antica, siede sul divanetto del salotto. Si ragiona da tempo di cosa accadrà al libro, e allora perché non chiedere lumi a chi ha trafficato con pergamene e manoscrittie ha raccontato l’uso sociale dello scrivere e del leggere almeno dal V secolo avanti Cristo fino all’invenzione della stampa (e anche oltre)? Ma c’è un altro motivo per raccogliere la testimonianza di un anziano professore, un antibarone che ha insegnato a Chicago e a Stanford, a Parigi, a Roma e alla Normale di Pisa e che fra i suoi studenti era leggendario per la quantità di sapere che trasmetteva e per il garbo con cui lo trasmetteva: il primo maggio compie ottant’anni. E che cosa c’entra l’antifascismo? «La festa del lavoro era stata abolita dal regime. Ma quel giorno a casa mia si festeggiò». Petrucci non si è fermato alle scritture antiche. Ha studiato la scrittura di Gramsci e di Moro e l’ultimo suo libro è una storia dello scriver lettere, dal III millennio avanti Cristo fino ai pizzini di Provenzano. «La scrittura a mano fornisce indicazioni sulle società cui appartengono gli scriventi. Ora mi sto occupando del corsivo. Perché si è cominciato a scrivere legando fra loro le lettere?» Me lo dica lei. «Si guadagna tempo, è il segno di una società più frettolosa. Molti scrivono, il rapporto fra gli scriventi è intenso e si cerca di fare prima possibile. È un fenomeno iniziato con la scrittura latina del V secolo avanti Cristo». Con l’avvento della stampa cambia tutto nella scrittura? «Cambia molto. Ma la gente continua a scrivere a mano, anzi più di prima, perché si sviluppa una lettura di massa e questo alimenta la scrittura. Più si diffondono i libri, più si impara a leggere, più si scrive. Ho studiato la scrittura di Petrarca e di Ungaretti. Ma i poeti c’entrano poco con la trasformazione della scrittura. I cambiamenti avvengono dal basso e poi si trasferiscono in modelli». I nostri anni somigliano a quelli in cui fu inventata la stampa? «In qualche modo sì. Ma la stampa agiva trasformando la scrittura a mano. Oggi la cultura informatica parte già da una scrittura meccanica. Noi al computer riproduciamo forme grafiche modellate da altri. Però, al di là delle forme grafiche, essendo la scrittura trasmissione del pensiero, scrittura e lettura non finiscono con l’ebook. Anche se io non leggo ebook». Lei ha raccontato la rilevanza nei secoli della forma fisica di un libro. Funzione sintetico-figurale, ideologica, magico-evocativa, estetica: sono sue definizioni. Il libro era un oggetto dotato di significati in sé. «Tutto questo è finito da secoli. Non è vero invece, come molti sostengono, che l’informatica abbia dissolto la scrittura a mano. Che invece resiste come attività individuale, sia nell’imparare, sia nello scrivere vero e proprio. Come attività collettiva è diminuita. Ma l’idea che tutto sia determinato dall’informatica non è statisticamente corretta. In Italia meno del 50 per cento della popolazione usa abitualmente il computer. L’altra metà, se sa scrivere, quando scrive, scrive a mano. E poi ci sono intere regioni del mondo, le più povere, che sono appena sfiorate dalla rivoluzione informatica». Che cosa si scrive a mano? «Non certo lettere. È una storia che appartiene solo al passato. Le email sono evanescenti e non avremo più grandi epistolari come quello di Petrarca o di Thomas Mann. Ma chi usa il computer abitualmente scrive appunti. E poi si scrive sui muri molto più di prima». Lei scrive molto a mano? «Io scrivo solo a mano. Ho scritto a macchina, ma la macchina da scrivere è lo strumento di scrittura durato di meno in assoluto. Ho usato anche il computer. Ora mi faccio aiutare da mia moglie. Ma nelle scuole la scrittura a mano sopravvive inalterata». E il futuro? «La facoltà e il bisogno di comunicare non possono scomparire. Non so rispondere a domande sul futuro. Per tutta la vita ho fatto lo storico, ho insegnato e il mio era un mondo di carte scritte a mano. Sono stato archivistae bibliotecario. Una cosa, però, penso accadrà: la rivoluzione informatica si diffonderà, ma lascerà fuori una porzione di mondo proporzionalmente superiore a quella lasciata fuori dall’avvento della stampa». Lei ha insegnato a Roma, poi l’hanno chiamata alla Normale. «Ed è stato un errore accettare». Un errore? È la più prestigiosa università italiana... «È un ambiente aperto prevalentemente agli ex normalisti. Io non ero un ex normalista». Però la qualità della didattica è fuori discussione. «Certo, si poteva e si può avere un rapporto profondamente diretto con gli studenti, altrove inimmaginabile. A Roma avevo ogni anno una sessantina di studenti, a Pisa molti di meno e di altissima qualità, selezionati severamente». E allora dov’era il problema? «Si respirava una certa aria di clausura. Un ex normalista rimane ex normalista per sempre e quando torna alla Normale da professore adotta i metodi di insegnamento tradizionali che finiscono per essere condizionanti. Ma, ripeto, il valore degli studenti è elevatissimo. E fa capire quanto insegnare serva a imparare e imparare prepari a insegnare». Mi spiega meglio? «Alla mia prima lezione a Pisa - era il 1991 - portai una lettera trecentesca di cui nessuno, tantomeno io, era riuscito a leggere la firma. Un ragazzo, adesso professore universitario, la guardò ed esclamò: "Ma questo è Gucciozzo de’ Ricci". Quarant’anni di paleografia mi sono rovinati addosso». E questo non bastò a disporla bene nei confronti della Normale? «I ragazzi erano eccellenti, volenterosi e disponibili. Ma la Normale soffre per un gusto dell’autosufficienza, anzi dell’auto-eccezionalità». Quindi l’università di massa ha i suoi vantaggi? «Sì, ma bisogna governare la massa. L’università deve essere gestita con un senso di responsabilità paragonabile alla sua enorme funzione sociale. Per intenderci: i miei colleghi non si devono spaventare se entrano in un’aula con un centinaio di studenti seduti e una cinquantina aggrappati alle finestre. Si deve trasmettere passione, anche se si insegna una materia barbosa come la paleografia. Si apprende mentre si insegna, i miei studenti mi hanno insegnato tantissimo. A parte Gucciozzo de’ Ricci». Lei li affascinava pur parlando di papiri, di pergameneo dell’onciale, la scrittura dei codici miniati. «Io cercavo di raccontare chi scrive e perché scrive. Ricostruivo un ambiente storico e culturale. Ma gli studenti mi hanno insegnato a riflettere con le loro domande, mi hanno suggerito metodi di indagine. Ha presente la foto di Gino Bartali e Fausto Coppi che si passano la borraccia?». Certo. «Era durante una tappa del Tour, mi pare nel 1949. Nessuno ha mai capito chi porgesse la borraccia a chi. Ecco questo è l’insegnamento: io passavo la borraccia, perché ero tenuto a farlo, loro me l’hanno ripassata altrettante volte. Ma quello che ho ricevuto mi sembra di più».