Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 1/5/2012, 1 maggio 2012
NAIROBI
Sui larghi marciapiedi di Kenyatta avenue, le donne con il velo si fermano a guardare le vetrine, discutono delle stoffe, ridono tranquille. Qualcuna poi risale sul fuoristrada con i vetri oscurati e si allontana.
La meta è Eastleigh, la piccola Mogadiscio, roccaforte della comunità somala, dove i taxisti non vogliono arrivare e dove la polizia kenyana entra molto malvolentieri. E’ la stagione delle piogge, le strade sono totalmente allagate, gli immigrati si accalcano densi sui lati. I più coraggiosi affrontano il diluvio per qualche acquisto in quello che è considerato il mercato più fornito di Nairobi, dove accanto alle t-shirt e alle spezie si possono trovare schermi tv e kalashnikov.
Ma anche nel centro della capitale, i somali camminano tranquilli. I giovani in fuga dalla Somalia non sono più destinati a una vita di strada, elemosine e colla da fiutare. Adesso hanno un ruolo che il tranquillo Kenya comincia a temere: all’interno della comunità è sempre più forte la presenza degli ultrà islamici di Harakat al Shabaab al Mujaheddin, il «Movimento dei giovani guerrieri», il cui leader Mukhtar Abu al-Zubair ha giurato fedeltà ad Ayman al Zawahiri, affiliando di fatto il suo gruppo ad Al Qaeda e proclamandolo poi sui siti internet fondamentalisti.
È anche in questo quartiere che la polizia cerca l’uomo che domenica ha lanciato una granata sui fedeli della Casa di Dio dei miracoli, uccidendone uno e ferendone una quindicina. Anche se le indagini concludessero che alla radice dell’attentato non c’era l’odio fanatico ma solo interessi più prosaici, come qualcuno sostiene, l’ombra degli Shabaab è comunque diventata una preoccupazione continua per un paese che basa la sua economia in maniera preponderante sul turismo.
In Somalia, o meglio nella parte sud che controllano, gli Shabaab hanno imposto la sharia e hanno vietato alle emittenti locali di ritrasmettere i contenuti di Bbc e Cnn. Schierati contro il governo e la missione Onu, non hanno digerito l’ingresso nel paese di truppe del Kenya. Nairobi aveva spedito le truppe oltre confine in ottobre, con l’intenzione esplicita di far cessare attentati e sequestri nel proprio territorio, ma anche con l’idea, inconfessata e considerata dagli analisti molto ambiziosa se non irrealizzabile, di pacificare con la forza il paese vicino.
I «giovani» avevano già chiamato alla Jihad quando il Kenya aveva cominciato ad addestrare i militari del governo somalo riconosciuto, ma nei mesi scorsi hanno alzato il tiro, giocando a creare il maggior danno possibile al turismo. L’ultimo attentato, costato la vita di una persona e il ferimento di altre 33, era stato a Mombasa, città costiera. E i sequestri che continuano, attribuiti sempre agli Shabaab, rischiano di minare alla base la risorsa economica fondamentale. E altre nubi si addensano, fra i profughi del Sudan in guerra e le tensioni autonomiste: una settimana fa la manifestazione del Consiglio repubblicano di Mombasa, il movimento che chiede l’indipendenza della regione costiera e che protestava per il mancato riconoscimento legale, è finita in scontri con la polizia, con un morto e diversi feriti.
Ma il nodo più difficile restano i problemi di sicurezza. Su questo tema nei giorni scorsi c’erano stati segnali di diversa natura: il governo britannico ha autorizzato British Airways a riprendere i voli su Nairobi e ha cancellato l’avvertimento di evitare viaggi in Kenya. L’ambasciata Usa invece aveva diffuso pochi giorni fa un comunicato di massima allerta, annunciando l’arrivo di attentati contro obiettivi «occidentali»: alberghi o uffici di rappresentanza. Insomma, il problema degli integralisti non è destinato a soluzione rapida. Tanto più che i somali sono qui per restare: investono nelle attività economiche più produttive e certe volte il denaro investito viene persino dalle attività dei pirati, come ha raccontato tranquillamente uno di loro all’ Associated Press. Il riscatto di una nave assalita nell’Oceano indiano è finito nell’acquisto di un negozio su Kenyatta avenue.