Mario Baudino, La Stampa 1/5/2012, 1 maggio 2012
Granta , la rivista di cui è direttore John Freeman dal 2009, è generalmente considerata il palcoscenico mondiale più importante per gli scrittori, soprattutto per i talenti emergenti, tanto da essersi diffusa in varie edizioni regionali, dalla Cina al Portogallo, senza dimenticare l’Italia
Granta , la rivista di cui è direttore John Freeman dal 2009, è generalmente considerata il palcoscenico mondiale più importante per gli scrittori, soprattutto per i talenti emergenti, tanto da essersi diffusa in varie edizioni regionali, dalla Cina al Portogallo, senza dimenticare l’Italia. Nata come un foglio studentesco a Cambridge nel 1889, ha lanciato poeti come Ted Hughes o Sylvia Plath, e più di recente Salman Rushdie. E’ la rivista di culto dove hanno scritto quasi tutti i grandi della letteratura anglo-americana. Qual è il segreto della ricetta di Granta ? «Tutte le riviste letterarie corrono il pericolo di istituzionalizzarsi, di diventare un potere culturale all’interno del mondo editoriale. Granta guarda anche all’esterno di questo mondo, non focalizzandosi sulla sola letteratura, ma anche sulle inchieste, le memorie, i viaggi. Siamo uno spazio culturale dove può succedere qualunque cosa» Anche in senso politico? «Non siamo un giornale di informazione, ma ci sono molte storie il cui senso è politico. Leggere è un atteggiamento morale, e noi dobbiamo trattarlo a questo modo». Lei è stato, ed è, un critico letterario. Ora, da direttore di Granta , è anche un editore. Sono due mestieri molto diversi? «Non tanto. Il problema è stimolare la gente - in questo caso chi scrive - a far bene. Il critico è l’intermediario fra l’autore e il lettore, l’editore aiuta l’autore a realizzarsi pienamente. Io credo di poter assolvere a entrambi i compiti» Che criteri usa per giudicare? Come decide che uno scritto è buono? «E’ come con le persone. A volte le ami, a volte no. I motivi sono molto diversi: per esempio c’entra il modo in cui si rapportano alla vita. Ci sono caratteristiche come la bellezza, l’intensità, la passione, l’impegno. Non c’è un solo modo di essere belli, o meravigliosi. C’è il modo in cui si pongono domande sul mondo, e tutte queste cose si percepiscono nella scrittura». Qual è il suo rapporto con le edizioni in altre lingue? «Io non parlo italiano, come non parlo il cinese. Scegliamo gli editor di queste edizioni e ovviamente ci affidiamo alla loro sensibilità. Poi ci piacerebbe tradurre in inglese il maggior numero di testi» Non pensa che la letteratura e in genere lo scrivere si sia parecchio globalizzato e che gli scrittori tendano ad assomigliarsi sempre di più? «Le differenza tra le culture esistono, anche se si vanno riducendo. Spero di trovare ottimi scrittori italiani che siano agevoli da tradurre, senza che per questo smettano di essere italiani». Ma che cosa cerca Granta , in particolare? Le differenze o le somiglianze? «Diciamo che mi piacerebbe incontrare il prossimo Alessandro Baricco. Gli scrittori devono trovare la loro strada. Facciamo l’esempio delle scuole di scrittura. Sono importanti, ma naturalmente c’è il rischio che producano un gran numero di scrittori che non hanno nulla da dire. La gente che ha veramente da dire è decisamente poca. Mi rendo conto che queste parole non suonano particolarmente democratiche, ma è così». Non le sembra che da qualche tempo a questo parte la gente che ha veramente qualcosa da dire sia sistematicamente esclusa dalle classifiche? In passato non accadeva. «Dipende dalla definizione che si dà di gran scrittore. Prendiamo Jonathan Frenzen o Toni Morrison. Sono ottimi scrittori, e vanno in classifica. Certo nel mercato inglese non vediamo in buone posizioni scrittori come Günther Grass o Nadine Gordimer. Gli intrattenitori prevalgono sugli autori più filosofici»