Vladimiro Zagrebelski, La Stampa 1/5/2012, 1 maggio 2012
Nel dibattito sulle possibili modifiche dell’articolo 18 della legge del 1970, che va sotto il nome di Statuto dei Lavoratori, si è inserito un argomento che, per la sua rilevanza generale, va segnalato e commentato indipendentemente dall’esito che avrà infine la proposta governativa ora all’esame del Senato
Nel dibattito sulle possibili modifiche dell’articolo 18 della legge del 1970, che va sotto il nome di Statuto dei Lavoratori, si è inserito un argomento che, per la sua rilevanza generale, va segnalato e commentato indipendentemente dall’esito che avrà infine la proposta governativa ora all’esame del Senato. La questione riguarda il ruolo del giudice nel decidere l’annullamento di un licenziamento, perché intimato senza giusta causa, con la conseguente reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. Accanto ai motivi di merito portati dalle varie parti attorno all’ipotesi di adottare una «soluzione tedesca», si è accennato anche al tema della affidabilità dei giudici, con quella che potrebbe essere liquidata come una battuta impropria: «Sì ma, i giudici italiani non sono come quelli tedeschi». Non so quanto approfondita sia la conoscenza degli orientamenti e del modo di lavorare dei giudici tedeschi nel loro complesso, ma egualmente, per la realtà italiana, la questione non è liquidabile come se si trattasse solo di una fastidiosa insinuazione. Il problema invece è della massima importanza e non riguarda solo il diritto del lavoro. La prevedibilità delle decisioni dei giudici è un aspetto fondamentale dello Stato di diritto, che richiede che i diritti e le libertà dei cittadini siano disciplinati dalla legge. La ragionevole certezza che le leggi possono assicurare è però vanificata quando la loro applicazione da parte del giudice è imprevedibile, oscillante, contraddittoria. Anche se è molto raro che una legge sia tanto chiara da escludere più interpretazioni, occorrerebbe che il legislatore producesse leggi che prevengano quanto più possibile le divergenze applicative. Ma ciò spesso non avviene per la difettosa tecnica di redazione o perché, alla ricerca di un accordo, si lasciano aperti e si rinviano alla decisione giudiziaria punti di conflitto politico. Un esempio di questa tendenza negativa si può vedere proprio nella proposta governativa sull’articolo 18, che in una particolare ipotesi sembra legare una diversa disciplina al caso in cui la mancanza della causa legittima di licenziamento sia «manifesta» e a quello in cui manifesta non sia, anche se accertata dal giudice. Una simile previsione è evidentemente destinata a produrre la massima imprevedibilità delle decisioni, su un punto di particolare rilevanza per la parti. Per portare comunque a un livello sopportabile le divergenze interpretative, soccorrono strumenti processuali conosciuti dagli Stati ben ordinati. Solitamente si ricorre alla forza vincolante delle sentenze della Corte di Cassazione, oppure a varie forme di vincolo nascente dai precedenti derivanti dalle sentenze rese da altri giudici in casi analoghi. Non si giunge mai a una soluzione che elimini ogni incertezza. Rimane comunque un certo tempo in cui le discordanze attendono che il sistema di assesti e giunga a stabilità. Ma ciò che non è accettabile è un’imprevedibilità strutturale e senza rimedio efficace. Nella materia riguardante la giusta causa nei licenziamenti una recentissima indagine di Andrea Ichino e Paolo Pinotti, pubblicata da La voce, ha reso evidente come, non solo la durata dei procedimenti giudiziari, ma anche e soprattutto i loro esiti siano diversissimi secondo il giudice cui la causa è stata assegnata. E poiché l’assegnazione a questo o a quel giudice è casuale, secondo criteri pressoché automatici, i due autori hanno potuto parlare di «roulette russa», così per il lavoratore che per il datore di lavoro. Cosa che è particolarmente grave quando la decisione sia resa da un giudice singolo e non collegiale e sia immediatamente esecutiva. Naturalmente un’indagine statistica, che maneggia numeri e non tieni conto delle specificità di ogni caso, va utilizzata per quel che può dare. Le percentuali che sono state estratte dai dati vanno trattate con prudenza. Ma l’esperienza diffusa conferma che l’indicazione non è priva di fondamento e non limitata al campo del diritto del lavoro. D’altra parte, proprio in quest’ultima materia la recente applicazione della norma sul diritto a istituire rappresentanze sindacali - che al lettore sembrerebbe univoca ha mostrato sorprendenti contrasti tra giudice e giudice nel decidere la medesima questione. Diverse valutazioni dei fatti nella loro specificità sono fisiologiche, poiché dipendono spesso dalla necessità di valutare circostanze e prove su cui è normale che si manifestino opinioni diverse. Il susseguirsi dei diversi gradi del processo - l’appello, la Cassazione - tende a garantire una conclusione motivata e accettabile anche quando opinioni diverse siano plausibili. La questione si presenta però diversamente quando si tratta di interpretare la legge (o il sistema delle leggi) applicabile. In questo caso il coesistere nel tempo di diverse e contrastanti interpretazioni, adottate da questo o da quel giudice, mette in discussione la stessa legge. Nell’assicurare i fondamenti dello Stato di diritto in Europa, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede che la disciplina dei diritti e delle libertà sia definita in modo ragionevolmente conoscibile e prevedibile nella sua applicazione da parte dei giudici. In diversi casi essa ha negato a un testo normativo la qualità di «legge», proprio perché l’applicazione da parte dei giudici era oscillante e imprevedibile, in modo tale che il cittadino era in sostanza alla mercé della decisione dell’autorità pubblica nel caso concreto. L’impressione è che il fenomeno della discordanza di giudizi siano particolarmente grave in Italia. I giudici sembrano ritenere scarsamente vincolante la giurisprudenza della Corte di Cassazione e accade che persino questa sia incoerente, instabile e incapace di assicurare un’applicazione eguale della legge. E sono deboli gli strumenti processuali destinati a risolvere i conflitti di giurisprudenza. In Francia è stato instaurato un sistema per cui la prima decisione di un giudice su una legge che pone problemi interpretativi importanti, viene subito portata all’esame della Corte d’appello e poi con precedenza all’esame della Corte di Cassazione, perché questa possa rapidamente dire la parola definitiva. Si tratta di un sistema pratico, che suppone però che la sentenza della Cassazione sia poi vincolante per l’insieme dei giudici. In Italia la cultura professionale dei magistrati esalta la loro individuale indipendenza e mette in ombra il profilo istituzionale del giudizio. Si parla del potere giudiziario come «potere diffuso», come se ciascun giudice ne fosse personalmente depositario. Il valore del precedente, che assicura prevedibilità anche quando non appaia pienamente convincente, è largamente rifiutato e tende invece a prevalere l’autorità della decisione del singolo giudice. E’ un tratto culturale e professionale che, nella sua forza, è specificamente italiano; frutto di una storia svoltasi nel dopoguerra, di liberazione dal peso di una gerarchia conservatrice, insensibile alla novità rappresentata dalla Costituzione repubblicana. Ma quel periodo storico è in Italia da tempo concluso, cosicché le ragioni di un ordinato funzionamento del complesso sistema giudiziario dovrebbero ora prevalere.