Paolo Mieli, Corriere della Sera 1/5/2012, 1 maggio 2012
Il primo ad accorgersi che tra Antonio Gramsci e il Partito comunista d’Italia era accaduto qualcosa di anomalo fu Benito Mussolini
Il primo ad accorgersi che tra Antonio Gramsci e il Partito comunista d’Italia era accaduto qualcosa di anomalo fu Benito Mussolini. Un articolo non firmato, dal titolo Altarini, uscì sul «Popolo d’Italia» il 31 dicembre 1937 (appena otto mesi dopo la morte dell’ex segretario del Partito comunista), per rilanciare, con sorprendente risalto, le indiscrezioni sui dissidi che avevano contrapposto Gramsci ai suoi compagni. Indiscrezioni comparse pochi giorni prima, a firma di Ezio Taddei, sull’«Adunata dei refrattari», un settimanale anarchico stampato a New York. Taddei — un oppositore al regime fascista, in rapporto, dopo qualche anno di carcere, con uomini del regime stesso (nelle persone di Arturo Musco e Vincenzo Bellavia) — in quell’articolo sul foglio anarchico aveva trattato Gramsci con toni sprezzanti, enfatizzando i privilegi di cui avrebbe goduto in prigione (gli sarebbe stato concesso di «sgranocchiare gli amaretti che gli piacevano tanto» e di nutrirsi «di pasticcini» mentre gli altri reclusi «crepavano di fame»). Ma soprattutto aveva rivelato — accennando alla testimonianza di un celebre militante incarcerato, Athos Lisa — l’ostilità nei suoi confronti da parte degli altri detenuti comunisti. Per di più Taddei aveva fatto esplicito riferimento alla disistima che il leader sardo nutriva per Ruggero Grieco, suo successore — a metà anni Trenta — alla guida del Partito comunista («Gramsci ha sputacchiato Grieco per gelosia»). Effettivamente, come sarebbe venuto alla luce oltre trent’anni dopo, Gramsci ce l’aveva eccome con Grieco; ma non «per gelosia», bensì a causa di una lettera inviatagli da quest’ultimo nel febbraio del 1928. Una lettera incredibilmente esplicita nell’indicare in lui il capo dei comunisti italiani, e perciò considerata dal fondatore dell’«Unità» strumento di una manovra provocatoria ai suoi danni. In una missiva del dicembre 1932, Gramsci riferì che il giudice istruttore, dopo avergli fatto vedere quello scritto di Grieco, gli aveva detto «testualmente»: «Onorevole Gramsci, ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». È di qui, da questa strana missiva di Grieco, che davvero sembra essere stata vergata per mettere in difficoltà Gramsci (tant’è che è stata addirittura avanzata l’ipotesi che potesse trattarsi di un falso), zeppa tra l’altro di «contraddizioni, anacronismi e nonsense», che prende le mosse Luciano Canfora per un importante libro in uscita il 9 maggio, Gramsci in carcere e il fascismo, edito da Salerno (pp. 304, 14). «A che titolo e investito da chi», si domanda Canfora, «Grieco si mette a scrivere quelle lettere (ce ne sono altre due, una a Mauro Scoccimarro e una a Umberto Terracini, ndr), in quel modo ammiccante e imprudente?». Lo stile di Grieco, aggiunge lo storico, «è un unicum rispetto alle comunicazioni epistolari "di partito", specie in quegli anni». Quanto al contenuto, le «lezioncine di politica» impartite da Grieco a Gramsci «sono a dir poco risibili». È un libro, questo di Canfora, destinato a fare riflettere come e forse più di molti altri saggi che nelle ultime settimane hanno riacceso le luci (e le discussioni) sul capo più famoso dei comunisti italiani. Gli scritti di cui stiamo parlando sono fondamentalmente quattro. Primo quello di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli), nel quale si ipotizza che Palmiro Togliatti abbia fatto sparire uno dei trenta quaderni scritti da Gramsci in carcere: quello in cui, secondo Lo Piparo, sarebbe stato evidente il distacco di Gramsci dal «comunismo come si andava realizzando e — tendiamo a pensare — dal comunismo tout court». Ipotesi che secondo un grande studioso dei Quaderni, Gianni Francioni, è «destituita di ogni fondamento». Ma che, a detta di Lo Piparo, sarebbe corroborata dalla lettura tra le righe di una curiosa lettera scritta da Gramsci il 27 febbraio del 1933 alla cognata Tatiana (Tania) Schucht, lettera che contiene queste parole di possibile allusione al suo ripudio dell’esperienza comunista: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone». Strana lettera, effettivamente, che fu scritta e spedita, dal carcere di Turi, il giorno successivo ad un colloquio di Gramsci con la sorella della moglie, quella Tania che sapeva di dover incontrare nuovamente, nello stesso parlatorio, di lì a poche ore, molto prima cioè che il suo scritto potesse giungere a destinazione. Come se Gramsci avesse voluto mettere quelle cose nero su bianco, di modo che potessero essere lette non già soltanto dalla cognata (a cui presumibilmente le aveva appena dette e poco dopo le avrebbe ridette a voce), ma soprattutto a Parigi e a Mosca dai suoi compagni di partito. Il secondo saggio che ha avuto risonanza (anche in seguito a un pubblico elogio ricevuto da Roberto Saviano) è stato quello di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Orsini ha sostenuto che valori riformisti e democratici possono essere accreditati esclusivamente al leader socialista Filippo Turati. E non a Gramsci. Soltanto Turati ha detto a chiare lettere che il pluralismo dei partiti è a fondamento della libertà, che l’educazione al socialismo coincide con l’educazione alla tolleranza e al rispetto degli avversari politici, che i socialisti devono condannare la violenza sotto il profilo etico-politico, che il diritto all’eresia è il pilastro del socialismo, che i socialisti non sono i detentori unici della verità, che si può imparare anche dagli avversari politici. Gramsci — del quale pure Orsini apprezza l’evoluzione quale si evince dalle pagine scritte in carcere — no. Il leader sardo educava a chiamare gli avversari politici «porci», «scatarri», «stracci di sangue mestruato», «pulitori di cessi» («e queste espressioni», precisa Orsini, «non erano rivolte ai fascisti, come qualcuno ha scritto, bensì ai riformisti e ai moderati»). Lo storico torinese Angelo d’Orsi (sulla «Stampa») ha stroncato i libri di Lo Piparo e di Orsini, scritti — a suo dire — «per regolare i conti del presente», e ha deriso anche la benevola recensione di Saviano, uno scrittore, a suo dire, «del tutto ignaro tanto di Gramsci, quanto di Turati». Terzo saggio che ha provocato polemiche è stato quello di Dario Biocca su «Nuova Storia Contemporanea»: Casa Passarge: Gramsci a Roma. In esso Biocca fa notare che tra il 1924 e il 1926 Gramsci abitò nella capitale, in via Morgagni, dove fu ospite del villino dei coniugi tedeschi Clara e George Philipp Passarge, il cui figlio Mario era amico del futuro capo della polizia Carmine Senise. Lo stesso Mario Passarge, dopo l’avvento del nazismo, si sarebbe trasferito a Berlino per lavorare negli uffici dello spionaggio. Strano, effettivamente, che il leader comunista, in anni successivi alla marcia su Roma, abbia scelto di prendere dimora proprio in quella casa e che in seguito sia rimasto affezionato a quella famiglia, nonostante fossero evidenti le compromissioni di Mario Passarge con il fascismo e con il nazismo. Poi Biocca si è spinto oltre e ha parlato di un «ravvedimento» implicito nella richiesta di Gramsci di essere liberato dal carcere: «Era», ha scritto, «il 1934 e nessun dirigente comunista aveva (né avrebbe) ottenuto la libertà condizionale senza fornire prove di sottomissione». Va tenuto a mente — ha proseguito Biocca — che, sotto il regime fascista, «non un militante o dirigente comunista beneficiò della libertà condizionale se non dopo la puntigliosa verifica del suo ravvedimento». Neanche uno. O meglio, secondo quello che è stato scritto fin qui in tutti i libri sull’argomento, l’incredibile eccezione sarebbe stata fatta per una sola persona: Antonio Gramsci, appunto. Il che, sempre secondo Biocca, avrebbe dell’assurdo. Apriti cielo. Immediatamente è sceso in campo Bruno Gravagnuolo con una serie di documentati articoli (sull’«Unità») che contraddicevano quel che Biocca aveva scritto in merito al «ravvedimento». Poi il presidente dell’International Gramsci Society, Joseph Buttigieg, che (su «Repubblica») ha definito quelle di Biocca nient’altro che «supposizioni e illazioni»: «Biocca», ha scritto Buttigieg, «non riesce a trovare un solo documento» che comprovi il «ravvedimento gramsciano»; e, del resto, «perché Mussolini avrebbe nascosto il ravvedimento del suo nemico? Non sarebbe stato logico utilizzarlo sul piano della propaganda, essendo Gramsci un caso internazionale?». Obiezione sensata. Quarto libro di questa copiosa messe di pubblicazioni è quello di Giuseppe Vacca: Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), edito da Einaudi. Vacca avanza l’ipotesi che la lettera di Grieco di cui si è detto all’inizio avesse ricevuto l’avallo di Giulia, la moglie di Gramsci nonché sorella di Tania. Questo spiegherebbe perché «quando Gramsci decise di rivolgere personalmente la sua denuncia al partito, affermasse che tra i suoi "condannatori" c’era stata, "inconsciamente", anche Giulia». Giulia poi, pentita, nel marzo del 1939 (due anni dopo la morte del marito) aveva puntato l’indice contro Togliatti, accusandolo di aver sabotato la liberazione di Gramsci, nel senso che aveva indotto la direzione del partito a compiere atti tali da renderla di fatto impossibile. Ma, scrive Vacca sulla scia di una sapiente esegesi dei documenti compiuta da Silvio Pons, tali sospetti «appaiono infondati». Togliatti «non aveva bisogno di sabotare tentativi di liberazione che, in realtà, non furono mai compiuti seriamente dall’unico attore che poteva intraprenderli, vale a dire il governo sovietico». A tenere Gramsci in carcere, prosegue Vacca, «ci pensava già Mussolini e la sua liberazione non aveva mai configurato l’oggetto di un interesse statale sovietico; non si vede, quindi, che cosa Togliatti avrebbe potuto aggiungere di suo». Eppure... Luciano Canfora torna alla lettera di Grieco del febbraio 1928. Lettera che Gramsci definisce «eccessivamente compromettente», «criminale», causa del fallimento di ogni possibile trattativa per la sua liberazione, anzi scritta apposta perché gli fosse inflitto un aggravamento della pena. Ai vertici del Partito comunista il caso fu subito affrontato, sia pure nel più assoluto riserbo imposto dall’esilio e dalla clandestinità. Poi, però, per anni e anni di questa epistola non viene fatto trapelare nulla. Così come, per anni e anni, nulla si è saputo delle indispettite reazioni di Gramsci, di cui non c’è traccia nella prima edizione delle Lettere dal carcere (Einaudi) del 1947. Non vengono pubblicati gli scritti gramsciani del 1932 e del 1933, nei quali, in riferimento alla lettera di Grieco, ci si domandava: «Si tratta di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l’uno e l’altro caso insieme; può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». «La mia impressione», proseguiva l’illustre recluso nel carcere di Turi, «è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, una "pratica burocratica" da emarginare e nulla di più». E ancora: «Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna. Devo dire che tra questi "condannatori" c’è stata anche Iulca (la moglie Giulia di cui si è detto, ndr), credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente... ma c’è una serie di altre persone meno inconsce. Questa è almeno la mia persuasione, ormai ferreamente ancorata perché l’unica che spieghi una serie di fatti successivi e congruenti tra loro». Togliatti — destinatario delle parole allusive — conosceva il testo di queste lettere. Ma, finché visse, fu «dosatore accorto e reticente della verità intorno alla vicenda» e non ritenne di renderle pubbliche. Anzi, vietò a Camilla Ravera e a Piero Sraffa di mostrare a chicchessia alcune copie delle lettere che erano rimaste in loro possesso. Neanche in Duemila pagine, Gramsci un uomo (Il Saggiatore) curato nel 1964 — poco prima che Togliatti morisse — da Niccolò Gallo e Giansiro Ferrata, sotto la supervisione di Mario Alicata, fu fatto cenno a quelle parole. Canfora la definisce «una capillare opera di censura». Poi, man mano che quegli scritti vengono alla luce, nei testi ufficiali si usa la formula «lettere che non sono state ancora recuperate» o «che sono state appena recuperate». «La scorrettezza», sottolinea Canfora, «è consistita nell’adoperare indiscriminatamente tale formuletta sia per le lettere che davvero fu faticoso ottenere dai familiari, sia per quelle di cui si era preferito per opportunità politica fornire solo una selezione». Dieci mesi dopo la morte del segretario del Pci (agosto 1964) verrà data alle stampe, da Einaudi, una nuova edizione delle Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, nella quale (sorpresa!) i curatori riferiscono dell’esistenza di «una strana lettera firmata Ruggero», lasciando cadere — come se si trattasse di una supposizione — «forse si tratta di Ruggero Grieco» (la circostanza che il gruppo dirigente del Pci aveva affrontato il caso Grieco-Gramsci anche con i sovietici già alla fine degli anni Trenta, rende quel «forse» del tutto stravagante). Finalmente, nel 1968, la lettera di Grieco (scritta quarant’anni prima) fu «scoperta» da Paolo Spriano, storico ufficiale del Pci, e pubblicata su «Rinascita» con indicazioni archivistiche che Canfora definisce «a dir poco reticenti». Nel 1977, Spriano riproporrà, in Gramsci in carcere e il partito (Einaudi), la storia di quella lettera, «purtroppo», scrive Canfora, «da lui edita in modo difettoso». Solo l’ultima edizione delle Lettere, quella curata da Aldo Natoli e Chiara Daniele nel 1999 (dieci anni dopo la fine del comunismo) è a detta di Canfora filologicamente impeccabile: «Una base finalmente scientifica per gli studiosi». Ma perché Grieco aveva scritto quelle cose nel 1928? Canfora avanza la «dolorosa ipotesi» che Grieco abbia agito da «provocatore» e che Spriano, storico «ufficiale» del Pci, avendo scoperto che le foto delle «famigerate» lettere dello stesso Grieco erano conservate in una busta della Divisione affari generali e riservati di Pubblica sicurezza, «abbia preferito tacere in quale modo le avesse trovate». Canfora riprende poi le confidenze fatte da un altro dirigente comunista dell’epoca, Giuseppe Berti, a Dante Corneli e da questi riferite in Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista (Tipografia Ferrante, Tivoli): in esse veniva avanzato il sospetto che Grieco potesse essere una «spia fascista». Lo stesso dubbio manifestato, qualche tempo prima, da Pietro Secchia, il quale aveva accusato Grieco di aver fallito nel compito di portare in salvo Gramsci, affidando la missione a Luca Osteria, smascherato poi, nel 1929, come una spia dell’Ovra. Canfora esorta poi a riflettere sulla circostanza che la posizione giudiziaria di Grieco fu «sbrigativamente stralciata dai giudici romani al termine dell’istruttoria con decisione... di dieci giorni dopo la famigerata lettera». E sul fatto che gli fu poi comminata una pena inferiore a quella che (confrontandola con le condanne agli altri dirigenti comunisti) ci si sarebbe potuti attendere. Dopo la morte di suo cognato, Tania, insospettita da tutto ciò, rifiutò di incontrare Grieco e nutrì diffidenza nei confronti di Piero Sraffa, amico sì di Gramsci ma prima ancora «leale» al partito e anche a Grieco. Strano personaggio, Grieco, che tra il 1935 e il 1937 fu temporaneamente successore di Palmiro Togliatti alla guida del Pci. Grieco ha un ruolo importante nella storia del Pci per il suo clamoroso «Appello ai fratelli in camicia nera» pubblicato su «Lo Stato Operaio» nell’agosto del 1936 con la firma apocrifa di Togliatti e di tutti i principali dirigenti comunisti. Proclama in cui si esaltavano il valore e l’eroismo con cui gli italiani avevano combattuto nella guerra d’Etiopia e si esortavano i militanti del Pci a far fronte comune con i fascisti. Nell’Appello si affermava che i comunisti facevano «proprio il programma fascista del 1919», definito «un programma di libertà». «Fascisti della vecchia guardia, giovani fascisti», si poteva leggere in quel testo, «noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919». Grieco non fu solo in quell’operazione. Nel corso di una riunione del Pci a Parigi in quello stesso agosto del 1936, un altro importante dirigente del partito, Mario Montagnana (cognato di Togliatti), fu ancora più esplicito: «Noi dobbiamo avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il fascismo... vogliamo oggi migliorare il fascismo perché non possiamo fare di più». E Giuseppe Di Vittorio scrisse una pubblica «Lettera ad un gerarca sindacale fascista» per domandargli: «Fra comunisti e fascisti in buona fede, esistono delle possibilità di lavoro comune, per il benessere del popolo italiano e per la marcia progressiva del nostro paese?» Da quel momento la parola d’ordine «Via Mussolini!» fu sostituita dai comunisti italiani con «Via i pescicani!»; come nemici, al posto dei fascisti, vennero identificati Donegani, Pirelli, Morpurgo, Agnelli, Giacinto Motta, Volpi, Orti, Rebaudengo, Parisi, Borletti; fu redatto un programma che prevedeva un prelievo straordinario sui patrimoni eccedenti il milione di lire, la confisca di tutti gli utili superiori al 6 per cento, l’obbligo ai personaggi di cui si è detto di «restituire il denaro rubato sulle sofferenze del popolo»; si proponeva che «i miliardi tolti ai pescicani» fossero usati per «dare pane e lavoro ai disoccupati» e per «pagare le indennità ai combattenti d’Africa». In quei mesi nessun dirigente comunista si dissociò pubblicamente da quelle parole. Ma, anni dopo, Berti riferì che, in privato, Togliatti aveva definito quel manifesto «una coglioneria»; il collettivo dei comunisti confinati a Ventotene fece pervenire al partito, per vie segrete, proteste e critiche; Pietro Secchia ne parlò, in seguito, come di un’«assurdità inaudita». In un libro pubblicato qualche anno fa da Marsilio, Un partito non stalinista, il figlio di Ruggero Grieco, Bruno, ha riproposto quel documento come la prova di un tentativo di suo padre (che, pure, nel 1940 aveva fatto autocritica per quella presa di posizione) di sottrarre il Pci all’egemonia staliniana. Ma Canfora definisce tale tesi «inconsistente». E accusa Spriano di non aver reso chiari, nel terzo volume della Storia del Pci (Einaudi), i termini di quella strana storia. Spriano — secondo Canfora — «con la sua peraltro consueta felpatezza» avrebbe deliberatamente rinunciato a spiegare al lettore cosa era davvero accaduto 35 anni prima. A questo punto Canfora fa osservare che «i tempi del disvelamento, che paiono non a torto intollerabili dal punto di vista della ricerca storica» sono «comprensibili in un’ottica tutta politica». Dopodiché azzarda un’ipotesi clamorosa: «Non è a priori inverosimile pensare», scrive, «che negli anni dei governi immediatamente postbellici, o quando Grieco stesso era alto commissario aggiunto all’epurazione, le foto delle lettere a Gramsci, Scoccimarro e Terracini siano state prelevate, magari dagli incartamenti di uno dei processi in cui Grieco era imputato, e acquisite agli archivi della Direzione del Pci». Quelle lettere scottavano: Gramsci, ricordiamolo, definiva «criminale» l’operato di Grieco e il giudice istruttore Enrico Macis gli aveva detto che i dirigenti del Pci erano stati i suoi pugnalatori. Poi, dopo che erano rimaste sepolte per decenni negli archivi del Pci, al momento di renderle pubbliche, «si provvide a riporle in un fondo di polizia onde presentarle al pubblico (come fece Spriano nel 1968, ndr) a Ferragosto con un commento che affermasse, subito in apertura, che "finalmente" quelle lettere "dissipavano" un’ombra che lo stesso Gramsci aveva gettato sull’episodio». Si può dire che furono «scoperte» più o meno dalle stesse persone che le avevano nascoste in quell’archivio, e la cosa fu fatta in piena estate per offrire — nella distrazione generale — una versione oltremodo tranquillizzante di quel che tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta aveva terremotato il vertice del Pci. «Si spiegherebbe così», prosegue Canfora, «anche perché mai questo sia l’unico documento di cui, in tutta la carriera di storiografo, Spriano non ha mai fornito le esatte coordinate archivistiche». «Beninteso», mette poi le mani avanti, «è soltanto un’ipotesi, ma appare, a tutt’oggi, come quella in grado di dar conto dell’insieme dei dati disponibili e delle molte anomalie altrimenti inspiegabili». Ma non è tutto. Il libro di Canfora ci esorta a soffermarci su un interessante parallelo tra quel che accadde in occasione delle morti di Grieco (1955), ex capo sia pure solo per un biennio dei comunisti italiani, e di quel Taddei (1956) di cui all’inizio, grande calunniatore, negli anni Trenta, di Gramsci e di altri dirigenti del Pci tra cui Giorgio Amendola. Nel luglio del 1955, quando muore Grieco, «Rinascita» ne dà notizia «con parole piuttosto rituali», molto meno calorose di quelle dedicate a un leader del Psi, Rodolfo Morandi, scomparso in quegli stessi giorni. La rivista annuncia che a Grieco sarà dedicato «ampio spazio nei prossimi numeri». Il che però non accade. «Rinascita» avverte poi il lettore che in un successivo fascicolo sarebbe comparso un saggio di Emilio Sereni dedicato a Grieco. Ma anche questo annuncio non avrà seguito. Sarà Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, a ripescare Grieco scrivendo, nel 1966, la prefazione a una raccolta di suoi scritti. Diverso il trattamento riservato a Taddei. Questi, all’inizio degli anni Quaranta, rese, negli Stati Uniti, una testimonianza a favore di Vittorio Vidali coinvolto in un’oscura vicenda. E il Pci gli dimostrò da quel momento la propria gratitudine. Ad occuparsi di lui, spalancandogli le porte del partito, fu un dirigente della vecchia guardia: Ambrogio Donini. Canfora fa notare che Donini elogiò Taddei e parlò di lui in questi termini: «La sua curiosa opinione era che il nostro compagno (Gramsci, ndr) godesse di troppi privilegi». Curiosa opinione? «Colpisce», scrive Canfora, «la leggerezza con cui viene minimizzata la posizione assunta da Taddei contro Gramsci». Donini gli diede una mano a pubblicare un romanzo di Taddei scrivendone la prefazione che attestò «il suo arruolamento ed il suo ravvedimento». Poi mentre Grieco scivolava nell’ombra, a Taddei veniva riservata la luce di benevoli riflettori. Taddei adesso, più che un politico, si sentiva scrittore. E grazie all’intercessione del Pci, gli venne concessa «una gratificazione non da poco», quella di pubblicare un nuovo libro, Rotaia, per i tipi di Einaudi. Dalla metà degli anni Quaranta gli si consentirà di dare alle stampe volumi di argomento saggistico nei quali Taddei «con un cinismo che non conosce imbarazzi», scrive Canfora, trasformava «in eroi coloro (i capi comunisti, ndr) che aveva minuziosamente descritto pochi mesi prima come canaglie, assassini e parassiti superpagati». Infine alla sua morte, nel ’56, sarà il direttore dell’«Unità», Pietro Ingrao, a scrivere l’impegnativo necrologico di quella strana figura di ex anarchico: «La sua milizia nelle file del Partito comunista ci è cara anche come un segno di questo inarrestabile processo che dalle ribellioni disperate di ieri ha fatto nascere un grande movimento rinnovatore». Curiosi destini incrociati all’ombra di Antonio Gramsci. E di Benito Mussolini.