Antnio Polito, Corriere della Sera 1/5/2012, 1 maggio 2012
I partiti pullulavano di tecnici e noi non lo sapevamo. I politici erano tutti professori e noi i professori ce li siamo andati a cercare alla Bocconi
I partiti pullulavano di tecnici e noi non lo sapevamo. I politici erano tutti professori e noi i professori ce li siamo andati a cercare alla Bocconi. Guardate con che competenza e sicurezza gli uomini che hanno governato il Paese negli ultimi anni con i noti risultati indicano oggi al governo la strada da prendere. I partiti pullulavano di tecnici e noi non lo sapevamo. Troppe tasse, dicono: e fin qui non c’è bisogno di essere professori, lo capisce anche la casalinga di Voghera. Bisogna risanare i conti, aggiungono: ma non così, cari professori, che non conoscete la società italiana e la state soffocando. Un rapido ritorno sulla scena del delitto l’ha fatto Giulio Tremonti, che l’aveva lasciata non molti mesi fa per scrivere il suo nuovo libro mentre il fuoco dello spread inghiottiva il nostro debito e Berlusconi vergava disperate e lunghissime lettere di promesse a Bruxelles, che lui non firmava. Tremonti sì che avrebbe saputo come uscire da questa situazione in cui si sono ficcati i professori. Del resto, è professore lui stesso. Uno dei primi professori prestati alla politica, anzi, entrato in Parlamento nel ’94 e da allora dominus assoluto del Tesoro in tre legislature su cinque. Tremonti non avrebbe «ucciso il cavallo dell’economia» con tutte queste tasse, ha dichiarato ieri al Corriere. Sarebbe bastata la sua delega fiscale. La quale, prevedendo un taglio massiccio e automatico delle detrazioni, si sarebbe in realtà risolta in un notevole aumento della pressione fiscale, così come le tre convulse manovre estive che l’avevano a loro volta aumentata anche rispetto al già cospicuo aumento degli ultimi tre anni di governo. Poi è venuto Monti e l’ha aumentata ancora. Per rispettare — ha spiegato — quell’impegno al pareggio di bilancio nel 2013 preso con l’Europa dal governo di cui Tremonti era superministro. E Maroni? L’ex ministro degli Interni che incita i 500 sindaci leghisti a organizzare una specie di disobbedienza fiscale contro l’Imu? Qui la coerenza è maggiore. Il nuovo leader leghista festeggiò infatti con Berlusconi, dopo il trionfo elettorale del 2008, l’abolizione totale e definitiva dell’odiata Ici, la tassa sulla casa che andava ai Comuni. Salvo poi scoprire che i Comuni boccheggiavano: così fu il collega di Lega Calderoli ad annunciare che col federalismo fiscale la tassa tornava, ma si sarebbe chiamata Imu, e sarebbe tornata ai Comuni al posto dell’Ici. Poi è arrivato Monti e si è presa pure l’Imu, sempre per quel pareggio di bilancio di cui, ne siamo certi, anche Maroni era stato informato. Ne pagheremo così tanta di Imu che, in una sola botta, ci mangeremo i tre anni felici senza Ici. E la maggioranza di adesso, ma all’opposizione un anno fa, ma al governo appena quattro anni fa? Prendiamo Bersani. Dovrebbe ricordare i livelli di pressione fiscale raggiunti nel 2006 dalla prima Finanziaria del governo di cui faceva parte, quello per il quale le tasse erano «una cosa bellissima». Così come dovrebbe ricordare che quel governo, diviso su tante cose, si trovò unito nell’accrescere di qualche altro miliardo la spesa con una controriforma delle pensioni che eliminò il cosiddetto scalone Maroni (perché i barbari sognanti, quando erano al governo, tagliavano pure le pensioni: ma il cerchio magico proibì a Tremonti di tagliarle di nuovo quando ci avrebbe forse evitato l’estate dello spread). I politici che fanno i professori ora non vogliono più tasse, e invitano i professori che si sono messi a fare i politici a tagliare la spesa. Solo la spesa degli altri, però. Così Bersani dice sì ai tagli ma non sull’istruzione, magari sulla difesa; e Cicchitto dice sì ai tagli ma non sulla sicurezza, magari sulla sanità. Dal che si capisce perfettamente dove prendano i voti Bersani e Cicchitto, ma non si capisce dove dovrebbero prendere i soldi Monti e Giarda, visto che lo Stato paga 40 miliardi all’anno di stipendi per l’istruzione e 26 per difesa e sicurezza, e un posto in un asilo pubblico a Roma costa al Comune il doppio che quello in un asilo privato e si aggirano per l’Italia trentamila marescialli in esubero che non si sa dove mettere. Così i politici dicono ai professori di usare il «cacciavite», o il «bisturi», tutte metafore molto efficaci per spiegare perché quando al governo c’erano loro la spesa pubblica saliva sempre. E che rivalutano perfino il professor Tremonti. Ecco perché i tagli lui li faceva «lineari»: perché erano gli unici che gli lasciavano fare e, in fin dei conti, anche gli unici veramente fatti.