Francesco Cevasco, la Lettura (Corriere della Sera) 29/04/2012, 29 aprile 2012
CHE SOGNO FARE DODICI AL TOTOCALCIO
Cinque maggio 1946. Nasce il sogno. Il sogno del povero italiano figlio di una guerra che gli ha lasciato soltanto un sogno: far qualche soldo per mantenere moglie e figli e poi, se va bene, comprare una Topolino Fiat, e se va molto bene una 500 Balestra Lunga, e se va benissimo una 1.500 Berlina. Da un mese hanno brevettato la Vespa, lo scooter che metterà le signore con le gambe accavallate sul sedile posteriore e farà impazzire i passanti che guarderanno le gonne sollevate da quel vento artificiale. Ma il sogno è un altro: la Schedina del Totocalcio. Cinque maggio 1946: su una carta sbiadita sono impilate 12 (non 13, 13 diventeranno dopo) partite di calcio. Indovinate il risultato, lo sappiamo tutti: 1 vince chi gioca in casa, 2 vince chi gioca in trasferta, X finisce pari. Costo: 30 lire, come dice la timida pubblicità, l’equivalente di un vermuth. Che era già un lusso. Un milanese originario di Roma, Emilio Biasotti, beccò il 12 e si mise in tasca 496.826 lire. Aveva intuito che l’Internazionale avrebbe battuto la Juventus, che il Torino avrebbe battuto il Milan, che la Sampierdarenese (la Sampdoria sarebbe arrivata da lì a poco) avrebbe pareggiato con la Sestrese, che il Genoa non sarebbe andato oltre il pari a Como, che il glorioso Novara avrebbe vinto a Legnano eccetera. Adesso ci sembra strano, in fondo non è passato molto tempo, ma allora il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi se voleva andare a Parigi per la Conferenza dei Grandi e non fare la figura dello straccione italiano doveva farsi prestare il cappotto dal più ricco ministro Piccioni che ne aveva uno «buono». È l’anno in cui c’è il Referendum istituzionale, e finalmente votano anche le donne, in cui Gino Bartali vince il suo terzo Giro d’Italia, in cui nasce Mediobanca ed esce il primo numero di «Grand Hotel». Ma che ce ne importa a noi, giochiamoci la fortuna: oltretutto noi italiani siamo tutti allenatori di calcio, sappiamo come e quando e perché una squadra (magari più debole) può vincere con un’altra (magari più forte).
Tutto questo ambaradan se l’è inventato un giornalista ebreo e sveglio (come son tutti gli ebrei). Si chiamava Massimo Della Pergola. Con due soci e 400 mila lire di capitale (meno della prima vincita) crea la società che sarà la mamma del Totocalcio. Quando, negli anni del fascismo, sente puzza di pericolo, imbraca moglie e figlio piccino, paga uno spallone che lo «transita» in Svizzera dove la notte di Natale del 1943 è tutto contento di finire in un campo di prigionia e di lavoro. Ma, almeno, essendo espatriato clandestino, non lo rispediscono a casa, cioè in un lager. Sulla giacca di lana grezza che gli hanno messo addosso guarda il numero che corrisponde al suo nome: 21915. Ma lui pensa ad altri numeri: «Quando tornerò in Italia farò i numeri dei soldi, un po’ per me, ma soprattutto per finanziare lo sport». E l’ha fatto davvero: finisce la guerra, torna in Italia, va al Coni (Comitato olimpico nazionale italiano) e propone la sua idea: «Costo zero, i soldi che s’incassano sono quelli che la gente paga per la schedina al posto del vermuth, con quelli facciamo gli stadi, le piste d’atletica, le scuole di sport per i ragazzi, le palestre». I burocrati lo prendevano in giro: «È arrivato Babbo Natale, quello che porta regali da milioni e milioni». E intanto i bar si riempivano di quelle schedine dalla carta strana che quando avanzavano non si buttavano via ma venivano riciclate ai barbieri che ci pulivano la schiuma appiccicata ai rasoi accompagnate da frasi tipo: «La vede questa? Non vale più niente, ma se alla Juve ci mettevo 2 anziché 1 che non serve a una minchia col 12 mi ci pagavo le ferie!».
A proposito, tutti noi diciamo 13 al Totocalcio, ma quando è nata la schedina i risultati da indovinare erano 12. Poi a Della Pergola lo Stato (più autoritario di quello fascista che lo aveva obbligato a scappare) gli ha scippato il bel giocattolo che aveva inventato. Siccome il Totocalcio era diventato un patrimonio nazionale come l’Energia elettrica, l’Acqua, il Gas, le Strade e le Autostrade, e produceva tanti soldi, gliel’hanno portato via. Ma lui non era così triste: «È la prova che avevo ragione io: con i soldi della Sisal (così si chiamava all’inizio) ci andiamo alle Olimpiadi». E pensare che è stato un galantuomo come Luigi Einaudi, nel 1948, a firmare la legge che ha nazionalizzato l’idea di Della Pergola. Intanto il Totocalcio ha continuato a fare del bene. Erano ancora i tempi della lira quando il minatore sardo Giovanni Mannu vince 77 milioni e davanti ai fotografi alza le braccia come un sollevatore di pesi per festeggiare. O come il bigliettaio della tratta Salemi-Messina Giovanni Cappello che esibisce i pacchi da 10.000 lire formato lenzuolo. O come quando la signora Giovanna Taoro incassa 60 milioni dicendo: «Fosse stato per mio figlio e per il buonsenso la sconfitta dell’Inter a Catania non l’avrei mai data».
L’odiato ministro delle Finanze Ezio Vanoni, predatore fiscale, si mise a caccia dei vincitori. Nacquero leggende metropolitane come: stiamo cercando uno zoppo con un soprabito verde, forse un ex carcerato, forse un giornalaio, è lui l’uomo del 13.
D’altra parte di soldi il Totocalcio in passato ne ha distribuito molti. Il montepremi più alto è stato di 34.475.852.942 lire per il concorso numero 17 del 5 dicembre 1993. Il premio record pagato è stato di 5.549.756.245 lire il 7 novembre del 1993, concorso numero 13, con una schedina che ha realizzato un 13 e cinque 12.
Una volta nella schedina si suggeriva al compilatore di scrivere nel retro nome cognome indirizzo e così fece Pietro Aleotti di Treviso. Nella primavera del 1947 vinse 64 milioni di lire, non controllò la schedina e non si accorse di aver fatto 12. Però aveva scritto nome cognome e professione. Alla voce professione scrisse artigiano del legno, non se la sentiva di scrivere «costruisco bare», temeva che portasse sfiga. Un telegramma del Ministero gli comunicò la vincita e al paese suo quando lo incontravano per strada anziché toccarsi e cambiar marciapiede lo avvicinavano e gli offrivano un caffè. Sfigato davvero fu il vincitore del concorso numero 19 della stagione calcistica 1946-1947: quando, unico caso nella storia del Totocalcio, il concorso e la vincita vennero annullati perché si disputarono solo otto partite.
Il Totocalcio ha smosso emozioni politiche di destra, di centro e di sinistra, come testimonia la vicenda romanzesca del compagno Videnzio, leader della commissione interna di un grande salumificio di Correggio, Reggio Emilia, che fedele alla schedina settimanale fu sicuro di aver vinto un premio importante. Stappò bottiglie di Lambrusco, festeggiò fino alle tre del mattino, dimenticò il suo impegno politico, trovò l’energia per ribellarsi davvero al padrone, si dimise dal lavoro, invitò tutti a pranzo al ristorante ma il giorno dopo scoprì di aver vinto soltanto 4 mila lire, chiese l’anticipo della paga e di tornare al lavoro nel salumificio.
La realtà diventa cinema come in Eccezziunale... veramente dove Abatantuono, tifoso milanista, vince 800 milioni di vecchie lire e finalmente corona il sogno della sua vita: mandare a quel paese moglie e suocera. Ma il sogno in questo caso non corrisponde alla realtà, e, siccome la vincita è soltanto un abile trucco degli amici, la moglie e la suocera ci sono ancora e ci saranno per sempre e tutto il meraviglioso mondo del Totocalcio gli crolla addosso nel suo metaforico significato: la vita te la conquisti, non la vinci per la tua fortuna (che oltretutto non c’è).
Anche Nanni Loi ha nobilitato l’emozione umana del Totocalcio nell’Audace colpo dei soliti ignoti. Nel piano malavitoso Floriana, la classica pupa svampita, con le sue arti seduttive ha convinto un ragioniere del Totocalcio a partecipare come complice alla rapina dell’incasso delle giocate, ma nell’incidente d’auto organizzato per bloccare la macchina con l’incasso delle schedine una battuta in dialetto romano smaschera i rapinatori.
E oggi il problema qual è? Che al Totocalcio non ci gioca più nessuno.
Francesco Cevasco