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 2012  aprile 29 Domenica calendario

LE 5 PAGINE MEMORABILI DELLA STORIA DELLA LETTERATURA: INCENDI

La fiamma, si sa, è bella. Per questo grande è l’importanza del fuoco nella letteratura. Oggi, poi, nei romanzi circolano indisturbati molti piromani: c’è il newyorkese Shalom Auslander (Prove per un incendio, Guanda) che tra le proprie ossessioni di ebreo non ortodosso include la paura di un misterioso incendiario. E c’è Bruce DeSilva con il suo noir metropolitano (Il piromane, Giunti) che mette un giornalista sulle piste di un seriale attizzatore di fuochi. Certo, non tutti i fuochi sono uguali. L’epica predilige le città devastate dalle fiamme: Troia (Omero, Virgilio e tutti i kolossal che ne hanno tratto), la Roma di Nerone (Quo Vadis?, romanzo & film), Mosca occupata da Napoleone (Tolstoj, e poi i registi King Vidor e Sergej Bondarchuk), Atlanta (Via col vento), Dresda sotto le bombe (Mattatoio Cinque di Vonnegut e Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer).
Qui però parliamo di incendi domestici, privati — case, palazzi, magari anche un convento — ma pur sempre incendi circoscritti, che non diventano il rogo che mette fine a una civiltà, che chiude un’epoca e ne prepara un’altra. Sono incendi «catartici» secondo la felice definizione di Paola Italia nel commento all’Incendio di via Keplero di Gadda (nel caso specifico, smaschera grettezze, ipocrisie e incapacità dei condomini piccoloborghesi). Ma sono catartici questi fuochi anche perché risolvono situazioni drammatiche: i cattivi finiscono bruciati e i buoni realizzano i loro sogni.
Charlotte Brontë, Jane Eyre
Appiccato dalla prima moglie di Edward Rochester, la pazza Bertha Mason reclusa all’ultimo piano di Thornfield Hall, l’incendio distrugge la vasta dimora di campagna. Bertha muore, Rochester si salva seppure gravemente menomato (ha perso la vista e una mano) e così Jane potrà finalmente celebrare le nozze con il ruvido e prepotente padrone. Il passato è ridotto a un rudere da dimenticare, la vita può cominciare. Pubblicato nel 1847 con lo pseudonimo Currer Bell, Jane Eyre è costituito da molti elementi autobiografici: anche Charlotte Brontë, come Jane, si era innamorata di un uomo sposato, il professor Héger, presso la cui scuola a Bruxelles aveva trascorso due anni. Questo triangolo doloroso si trasforma nel libro in una sorta di incubo, popolato dall’opprimente e taciuta presenza della moglie pazza. Nell’incendio deflagrano passioni e terrori repressi. Bertha dà fuoco alla camera dell’istitutrice (ma Jane è partita) e poi, salita sul tetto, si butta nel vuoto urlando. Ombra dannata, «Doppelgänger», figura creata dall’inconscio della protagonista, l’incendiaria porta con sé una inquietudine che il lieto fine non basta a risolvere. Più di cento anni dopo, Jean Rhys le dedicherà un prequel, Il grande mare dei sargassi, quasi per una sorta di riparazione.
Daphne Du Maurier, Rebecca
Ad apertura di romanzo sappiamo che Manderley, la splendida mansion che si affaccia sul mare della Cornovaglia, è bruciata e di essa non resta che uno scheletro annerito. Rebecca (1938) di Daphne Du Maurier ripropone il triangolo di Jane Eyre, solo che qui la prima moglie, Rebecca, è morta anche se il suo ricordo grava sulla casa e sulla nuova sposa di Maxim de Winter, una ragazza povera che come Jane Eyre ha lavorato a servizio da ricchi aristocratici. A provocare la catastrofe è Miss Danvers, la governante di Rebecca che continua a dedicare alla sua signora un culto ossessivo. Sarà lei a dar fuoco a Manderley. Nel film di Alfred Hitchcock (1940) muore nel rogo della casa; nel romanzo sappiamo solo che si è allontanata poche ore prima dell’incendio. «Il cielo all’orizzonte era soffuso di un rosso intenso, quasi uno spruzzo sanguigno. E il vento salmastro che veniva dal mare ci soffiava le ceneri sul viso». Certo, Maxim e la seconda moglie (è lei l’io narrante del libro ma non ha un nome) possono dare avvio a una nuova vita, però le rovine di Manderley continueranno a turbare i loro sogni.
Carlo Emilio Gadda,
L’incendio di via Keplero
Affascinato dallo spettacolo delle fiamme che si sprigionano da un condominio («il fuoco non poté fare a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto attese!, e lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse») Carlo Emilio Gadda vuole sfidare il futurista Marinetti nella rappresentazione «simultanea» dell’incendio e delle reazioni degli abitanti della «ululante topaia» di via Keplero 14. Fra anziane scarmigliate, vecchi garibaldini, bambine che piangono, un pappagallo, il facchino che ha appena usato «una robusta galanteria» alla signora del piano di sopra, in un corteo di cognomi lombardi (Maldifassi, Fumagalli, Besozzi, Balossi) e di pompieri e infermieri della Croce Verde, si attua un felice sovvertimento di gerarchie e valori. Grazie al fuoco catartico che mostra tutta la meschina piccineria della gente cosiddetta dabbene, e invece esalta l’umanità del ladruncolo di professione, del garzone e del facchino. Unica vittima, il garibaldino che si attarda a raccogliere cimeli e medaglie. Scritto fra il 1930 e il 1935, pubblicato la prima volta da Vallecchi nel 1953 nelle Novelle del Ducato in fiamme, il racconto riesce dieci anni dopo da Garzanti in Accoppiamenti giudiziosi, e nel 2011 da Adelphi, nell’edizione curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti.
Yukio Mishima, Il Padiglione d’oro
Nel 1950, Hayashi Yoken, un giovane monaco, dà alle fiamme un tempio zen di Kyoto, il Kinkaku-ji, il Padiglione d’oro. Colpito dalla storia, Yukio Mishima visita in carcere Hayashi. E nel 1956 pubblica il romanzo che, tradotto da Ivan Morris in inglese, gli regala il primo successo internazionale. Raccontato in prima persona (il protagonista ora si chiama Mizoguchi, è balbuziente e ha un viso repellente), Il padiglione d’oro è la storia di una lunga, devastante ossessione che spinge il ragazzo a odiare tutto ciò che è bello. E il piccolo tempio rappresenta per lui il compendio della bellezza. Sconta, Mizoguchi, non solo il proprio fisico sgraziato ma anche i tragici umori assorbiti durante gli anni di guerra e il disagio esistenziale del Giappone sconfitto e occupato dagli americani. A metà fra un gesto eroico e l’obbedienza a un precetto zen («se incontri il Budda, uccidilo»), il rogo in realtà diventa una sorta di liberazione. Mizoguchi non solo rinuncia al progetto di uccidersi, ma si allontana dalle fiamme con un nuovo slancio vitale. Le sue ultime parole sono: «Volevo vivere».
Umberto Eco, Il nome della rosa
Nel convento fra i monti, dove si deve tenere un teso confronto tra i francescani fautori del ritorno alla povertà evangelica e gli inviati della curia papale, si verificano strani delitti. Guglielmo di Baskerville e il suo allievo Adso da Melk indagano. Alle origini delle numerose morti c’è un manoscritto proibito, il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello dedicato alla commedia e al riso. Il cieco Jorge de Burgos impiega ogni mezzo per impedire che sia letto. Chiuso nella vasta, labirintica biblioteca, il monaco assassino viene scoperto. Ma prima di venir catturato, scaglia la lucerna sui preziosi codici che s’infiammano e propagano il fuoco all’intero edificio. Eliminato il malvagio, Guglielmo riprende il suo cammino, ma la causa per cui aveva combattuto non vincerà. Bestseller mondiale, capostipite di un filone che ancora non accenna a esaurirsi (il thriller medievale nelle sue infinite varianti: anche Dan Brown, in fondo, nasce da qui), Il nome della rosa (1980) offre suspense ed erudizione, ritmo da crime novel e uso di un lessico sofisticato. Ecco il rogo dei libri: «Tutto avvenne in pochi attimi, una vampata si levò dai volumi, come se quelle pagine millenarie anelassero da secoli all’arsione e gioissero nel soddisfare di colpo una immemoriale sete di ecpirosi». Dove colpisce la parola greca «ecpirosi», la conflagrazione universale che chiude secondo gli Stoici un ciclo temporale.
Ranieri Polese