Paolo Valentino, la Lettura (Corriere della Sera) 29/04/2012, 29 aprile 2012
NEL CUORE (GASTRONOMICO) DI ROMA
Qual è il vero filo rosso che attraversa la vicenda della Città Eterna, dall’Impero romano alla Repubblica italiana? Ed è possibile trovare una diversa chiave d’interpretazione unificante per la sua straordinaria e incontenibile vastità storica, culturale, artistica e religiosa? Dimenticate gli imperatori, i papi e la Chiesa, dimenticate l’aristocrazia di ogni colore, dimenticate il genius loci della cortigianeria concimato dal potere. No, il tratto comune che lega e illumina tutta la storia di Roma è il rapporto dei romani con il cibo. Non nel senso che siano particolarmente buongustai o mangino in modo smodato. Ma nel senso che al cibo pensano e ne discutono di continuo, con il corollario che ogni singolo aspetto della loro vita è — ed è sempre stato — come «marinato nell’alimentazione».
Si può non essere d’accordo con la tesi di David Winner. Possiamo sorridere di fronte alla sua riduttiva originalità. Ma vale assolutamente la pena di farsi prendere per mano, attraverso le trenta stazioni di Al Dente. Madness, Beauty and the Food of Rome («Follia, bellezza e il cibo di Roma»). Nel libro, appena uscito in Gran Bretagna per i tipi di Simon&Schuster, lo scrittore inglese, affezionato residente della nostra capitale, esplora la città offrendone quello che lui stesso definisce «un ritratto parziale e particolare». Forse troppo dedicato a un pubblico straniero per essere veramente universale. Eppure così ricco di intuizioni, inquadrature inaspettate, aneddoti poco conosciuti, da farsi perdonare anche alcuni, inevitabili, luoghi comuni.
Winner è autore sofisticato e colto. Il suo Brilliant Orange. The Neurotic Genius of Dutch Football, («Arancione brillante. Il genio nevrotico del calcio olandese), che Sandro Modeo fece scoprire qualche anno fa ai lettori del «Corriere», rimane forse il più bell’esempio di new sport writing, analisi raffinata e brillante di come il «calcio totale» della nazionale arancione di Johann Cruijff trovasse radici e ispirazione nella storia dell’Olanda, al punto da diventarne metafora e simbolo: la conquista dello spazio vitale (la squadra avversaria come il mare) o la geometrica precisione di un gioco che sembrava dettato dai quadri di Piet Mondrian, fino alla rivoluzionaria presenza delle mogli nei ritiri, che incarnava la tolleranza e la modernità di un modello sociale.
La cavalcata romana di Winner comincia dall’acqua, elemento centrale della civiltà romana, convinta a ragione che bisognasse «dividerla», cioè renderla bene comune a patrizi, plebei e schiavi, per «unire il popolo». Ci guida attraverso il dedalo degli antichi acquedotti, dedica un affettuoso tributo a quello dell’Acqua Vergine, che papa Giulio III volle trovasse uno sbocco alla Fontana di Trevi.
Sulla genesi e realizzazione de La grande abbuffata di Marco Ferreri, «il film più scabroso, inquietante ma stranamente bello che i romani abbiano mai girato sul cibo», l’autore si sofferma per un intero capitolo, ricco di citazioni e riferimenti alle feste di Trimalcione, agli eccessi erotico-gastronomici di Eliogabalo, forse il più debosciato degli imperatori, alle orge dei Borgia... Non un film francese come si dice spesso, avverte il nostro: «Il suo cuore è pura, vecchia Roma».
Nella lettura di Winner, l’ascetismo, il rifiuto del corpo e l’autoflagellazione di figure come San Gerolamo innescano la reazione opposta agli appetiti orgiastici della Roma imperiale. Ma rimarrà sempre il rapporto col cibo il paradigma concettuale. Anche quando si sarebbe trasfigurato nel sangue. Fosse quello versato dal celebre mastro Titta, il boia di sei papi che nella sua onorata carriera squartò, decapitò o impiccò 516 persone per la gioia di folle eccitate. O quello presente in decine di ricette romane. Il sangue come espiazione, salvezza e nutrimento.
Il libro rende omaggio al garum, l’ubiqua e misteriosa salsa di pesce che dominava la cucina dell’antica Roma. Si sofferma sulla simbologia erotica di frutta e ortaggi nella pittura post rinascimentale. Winner discute con Dario Argento sull’amore per il cibo di Mastroianni e Sergio Leone: «No, non Fellini, lui amava i ristoranti». E si reca al parco della Caffarella, nell’angolo dove Pasolini girò la scena della crocifissione per La ricotta, uno dei quattro episodi di RoGoPaG (gli altri erano Rossellini, Godard e Gregoretti): «La ricotta era il cibo dei burini», spiega Fulvio Abbate.
Un posto al sole meritano le pagine sull’ostia, deliziosa è la lunga telefonata dell’autore con suor Maria delle Sorelle Clarisse di Albano, produttrici delle ostie più rinomate e richieste nelle diocesi del Lazio. Dalla sua clausura, la religiosa svela i segreti non segreti di una ricetta, dove la differenza la fanno l’acqua filtrata e una farina preparata, secondo direttive precise delle monache, da un molino di fiducia. Lo sapevate che il tiramisù più buono d’Italia si fa a Roma e migliaia di romani fanno la coda in una pasticceria di quasi periferia per comprarlo? Winner racconta anche la storia del miglior gelataio della capitale, celebre anche in Corea. E quella del ristorante cinese, dove si mangia il riso nero al gelsomino e dove nel retrobottega c’è l’altarino dedicato a Mao, che la proprietaria considera il suo portafortuna.
Aneddotico, storico, appassionato e distaccato allo stesso tempo, il sofisticato libro di Winner sembra produrre un effetto simile all’ultimo film di Woody Allen: quello di farci dimenticare per un breve intervallo i troppi sfregi di una città indicibilmente bella, ma indicibilmente in degrado. E mentre idealmente lo seguiamo per luoghi e suggestioni, pensiamo a quanto ci piacerebbe che fosse veramente così facile viverci.
Paolo Valentino