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 2012  aprile 29 Domenica calendario

ESSERE VAGHI CI RENDE PIU’ EVOLUTI - «I

confini della ricerca scientifica sono quasi sempre immersi nella nebbia». Lo scriveva Francis Crick nella sua autobiografia. La frase può sorprendere chi pensa alla scienza come al regno dell’esattezza e della precisione. Associare le idee di «confini» e «nebbia» crea una delle situazioni più vaghe che possiamo immaginare. Dove tracciamo il confine di un banco di nebbia? In quale punto inizia e in quale finisce? Ma con la vaghezza bisogna fare i conti, gli scienziati lo sanno. Se lo stesso Crick e James Watson avessero dato una definizione precisa di gene, molto probabilmente la biologia molecolare non avrebbe fatto i progressi che ha fatto grazie alla loro scoperta — ancora oggi la comunità scientifica non è concorde sulla definizione di «gene». Allo stesso modo, se il giovane Charles Darwin avesse avuto ben chiari i confini della nozione di «specie», la sua teoria dell’evoluzione non avrebbe visto la luce.
«La scienza non si fonda su basi bianche o nere. Bisogna imparare a ragionare secondo gradazioni di grigio» è la tesi dell’esperto di vaghezza Kees van Deemter, autore di Not Exactly: In Praise of Vagueness (pubblicato due anni fa da Oxford University Press, in uscita in queste settimane in una nuova edizione ebook e paperback). «Se guardiamo a molti concetti scientifici con la lente di ingrandimento ci imbattiamo nella vaghezza», scrive van Deemter proprio a proposto dell’idea di «specie». I biologi continuano a cercare confini netti per le distinzioni tra specie, senza raggiungere un accordo. Secondo la definizione in uso due animali appartengono alla stessa specie se è possibile ibridarli, se possono generare prole fertile. Ma questa definizione contempla casi borderline. Si prenda la Salamandra Ensatina. Questo anfibio tipico della California ha sei sottospecie. La sottospecie A si ibrida con la B, la B con la C, ma alla fine della catena la A non si ibrida con la F. Nonostante casi indefiniti come questo, la nozione viene comunque usata dalla comunità scientifica.
Ma con la vaghezza abbiamo a che fare tutti nella vita quotidiana. Alto, basso, magro, grasso, calvo, obeso, povero. Ci serviamo di continuo di predicati come questi. «Descrivere il mondo in termini discreti è un’utile finzione. La logica classica è discreta, impone dicotomie», sostiene van Deemter. Mentre per definire con precisione la vaghezza è necessario occuparsi dei casi borderline. È uno dei punti di partenza di Vaghezza: Confini, cumuli, paradossi, saggio appena pubblicato da Laterza di Sebastiano Moruzzi, ricercatore del dipartimento di Discipline della comunicazione dell’Università di Bologna. Il libro di Moruzzi è un’introduzione alle teorie filosofiche della vaghezza. È un aspetto del linguaggio? Della nostra conoscenza della realtà? O della realtà stessa? Per risolvere questi rompicapo è necessario servirsi delle cosiddette logiche non classiche. Fuzzy logic e teorie supervalutazioniste, ovvero linguaggi che si servono di più valori di verità, quando «vero» e «falso» non bastano. «La vaghezza ci impone innanzitutto una modestia epistemica su noi stessi comportando una professione di ignoranza su quale sia la portata effettiva delle nostre capacità cognitive», scrive Moruzzi.
Forse questo è il modo per liberarsi di quella che Richard Dawkins definisce «tirannia della mente discontinua», ovvero il pensiero secondo categorie discrete, per avvicinarsi a quell’idea di continuum metafisico su cui torna così spesso David Foster Wallace nell’intervista pubblicata in Come diventare se stessi. Certo, difendere la vaghezza può essere difficile in un’epoca che chiede informazioni precise. Essere vaghi risulta come essere poco chiari, elusivi, sfuggenti. Pigri, addirittura. «Eppure alle volte l’esattezza è pericolosa, limita le possibilità, tarpa l’immaginazione. Vaghezza vuol dire tenere la porta aperta, ricordarsi che non conosciamo la risposta, che possiamo ancora fare meglio, che possiamo ancora fallire», scrive Jonah Lehrer autore di Imagine: how creativity works (Houghton Mifflin Harcourt, 2012). Nell’impresa si sono cimentati anche due studiosi delle università dello Utah e di Stanford, Himanshu Mishra e Baba Shiv, in una ricerca pubblicata nei mesi scorsi dalla rivista «Psychological science». Lo studio mostra i benefici a livello cognitivo dell’inarticolato e del vago, illustrando i problemi provocati dall’eccesso di precisione. Supponiamo che vogliate fare una dieta, decidete di perdere 5 chili. Dopo qualche giorno vi pesate: avete perso solo 4 chili. «Rappresenta un progresso, ma siete delusi. Sarete demotivati e abbandonerete la dieta», scrivono Mishra e Shiv. Il problema sta nell’esattezza della scala, che rende impossibile ignorare gli insuccessi. «Se l’informazione fosse più vaga, potremmo dare un’interpretazione più generosa dei dati», scrivono gli studiosi. I benefici motivazionali erano sottolineati anche da uno studio di Catherine Clement della Easter Kentucky University: per aumentare la nostra capacita di risolvere problemi complessi è meglio usare verbi generici.
In ambito giuridico considerazioni sulla stessa linea si trovano nell’Oxford Handbook of Language and Law, di prossima uscita. Ralf Poscher, autore di uno dei saggi raccolti, arriva alla conclusione che «la vaghezza non è un pericolo per il diritto. Il vantaggio maggiore è nella riduzione dei costi di decisione». Se le conclusioni di psicologi e giuristi lasciano perplessi, si può tornare alla nostra vita quotidiana online e alla riflessione dell’informatico van Deemter: «Stiamo andando verso il web semantico, in cui le rappresentazioni formali sono simboliche. La sfida è rappresentare cose vaghe o gradabili, concetti come una casa "per tutte le tasche" o monumenti "antichi"». I rischi arrivano quando ci si sposta nel discorso politico: «Lì ci possono essere manipolazioni e si sfocia nell’ambiguità». E i confini tra sana vaghezza e pericolosa ambiguità non sono così netti.
Antonio Sgobba