Giuseppe Di Piazza, Corriere della Sera 29/04/2012, 29 aprile 2012
DALLA MONTESI A YARA. LE TANTE DONNE DEI DELITTI «IRRISOLTI»
Li chiamano «cold case», cioè freddi Successi e limiti dell’esame del Dna
Cold case. Casi freddi, cioè delitti irrisolti, nutrimento surgelato per la voglia di mistero che il nostro Paese — come ogni Paese evoluto preda delle proprie insicurezze — genera. Il caso freddo, da che giallo è giallo, è una declinazione femminile. Sono irrisolti moltissimi casi, in Italia, ma quelli di cui tutti si ricordano hanno quasi sempre per vittima una donna. La lista delle vittime senza giustizia è impressionante, ed è incisa nella memoria collettiva di noi lettori di giornali o spettatori di crime tv.
Si comincia, per i più maturi, con Wilma Montesi, la bellissima ragazza trovata cadavere l’11 aprile del ’53 sul lungomare di Torvaianica, Roma, e si finisce con Yara Gambirasio, la quasi bambina scomparsa nel novembre 2010 a Brembate di Sopra, Bergamo, e ritrovata morta in un campo il 26 febbraio del 2011.
Nel mezzo ci sono nomi che appena letti riporteranno in superficie, per ognuno di noi, ricordi o angosce: Nada Cella, assassinata nel ’96 a Chiavari; Chiara Poggi, uccisa nell’agosto del 2007 a Garlasco; Meredith Kercher, massacrata lo stesso anno a Perugia. E poi Antonella Di Veroli, la commercialista romana uccisa e chiusa in un armadio una sera tiepida della primavera del ’94; Serena Mollicone, una deliziosa diciottenne ciociara ritrovata il primo giugno del 2001 ai margini di un boschetto, con mani e piedi legati e la testa in un sacchetto di cellophane neanche fosse un boss mafioso. Per finire con Simonetta Cesaroni, la ventenne assassinata il 7 agosto del ’90 in un ufficio di via Poma 2, classico giallo della porta chiusa che sarebbe piaciuto a Edgar Allan Poe. Con una sola, piccola differenza: l’investigatore di Poe, Auguste Dupin, alla fine trovava l’assassino.
I cold case, invece, per poter diventare davvero freddi richiedono che polizia e carabinieri non trovino il colpevole.
Come si fa a non scoprire un assassino? Facile, si potrebbe dire: se non lo si becca nella prime 48 ore, c’è la forte probabilità, come insegna la criminologia, che il caso resti irrisolto. Candidandosi quindi a divenire nel tempo un perfetto cold case.
Nel caso delle sparizioni di maggiorenni, per esempio, è molto difficile che le indagini scattino subito. C’è sempre l’ipotesi che l’adulto si sia allontanato volontariamente.
Un esempio recente lo offre il caso di Roberta Ragusa, la madre svanita nel nulla la notte tra il 13 e il 14 gennaio scorso dalla sua villetta di Gello, in provincia di Pisa. Per circa un mese non si è indagato, pensando che la signora Ragusa avesse voluto tagliare i ponti col proprio passato (marito e due figli piccoli). Ora i carabinieri indagano per omicidio. È facile immaginare che nel primo mese di vuoto, l’assassino (se omicidio è stato) ha avuto tutto il tempo per sistemare tracce e scena del delitto.
Gli anni, comunque, non passano sempre invano. La tecnologia ha fatto grossi passi in avanti, offrendo agli investigatori altre armi per rileggere casi del passato. È successo per esempio con il giallo dell’Olgiata, risolto — come in un romanzo di Dumas — vent’anni dopo. La contessa Alberica Filo della Torre venne uccisa il 10 luglio del ’91, strangolata nella sua camera da letto. Si avanzarono molte ipotesi, da fanta-thriller politico. Ma la verità fu che per un ventennio l’assassinio rimase impunito. Finché un giorno, riesaminando alcuni reperti, si potè identificare un Dna trovato sul luogo del delitto: combaciava con quello del domestico filippino, Manuel Winston Reves, che così, lo scorso anno, è stato preso e processato. L’uomo ha ammesso la propria responsabilità (fu delitto per rapina) ottenendo una condanna a 16 anni.
Per risolvere i casi cold, la questura di Roma ha costituito un paio d’anni fa una squadra speciale che riconsidera proprio i fascicoli polverosi, quelli che hanno il marchio di «irrisolti». Tra essi, c’era la vicenda di Maria Scarfò, una bella barista trentenne, rapita nel suo quartiere di Roma, il Quadraro, la sera del 29 dicembre 2000 e ritrovata cadavere lungo l’autostrada Roma-Napoli, in un’area di sosta. Per più di dieci anni, il delitto è rimasto impunito, finché la squadra cold case dei poliziotti della questura romana ha potuto riesaminare, con tecniche scientifiche nuove, alcuni reperti organici trovati nella donna. È saltato fuori un profilo di Dna che ha portato all’arresto di Sabatino D’Alfonso. Sul fascicolo, i poliziotti hanno potuto cancellare la dicitura «irrisolto». Caso chiuso.
Ma quanto affidamento si può fare sull’investigazione scientifica? Il rischio è che si generi in alcuni investigatori una sorta di pigrizia, dovuta a un retropensiero: tanto poi si troverà il Dna…
Un caso recentissimo è stato invece risolto — per così dire — all’antica, senza scomodare gli amici americani di «Csi». Si tratta della scomparsa, a Enna, della giovane Vanessa Scialfa. La ragazza era svanita nel nulla, e i poliziotti stavano interrogando il suo fidanzato. A un certo punto, un funzionario ha provato il bluff: «Guarda che non ti devi preoccupare, Vanessa è già tornata a casa e sta bene». L’uomo a quel punto non ha retto il gioco e ha detto: «Non è possibile…». Pochi minuti dopo ha confessato. Grazie a un bluff. Senza ombra di Dna.
Giuseppe Di Piazza