Margherita De Bac, Corriere della Sera 28/04/2012; Beppe Severgnini, ib.; Dario Di Vico, ib., 28 aprile 2012
3 articoli – IISTAT, SIAMO 59,5 MILIONI. TRIPLICATI GLI STRANIERI — Di nuovo in crescita la popolazione, dopo vent’anni di stop
3 articoli – IISTAT, SIAMO 59,5 MILIONI. TRIPLICATI GLI STRANIERI — Di nuovo in crescita la popolazione, dopo vent’anni di stop. E l’aumento è di quasi il 4%. Non è però merito degli italiani, notoriamente poco prolifici (e infatti le famiglie sia pur più numerose si sono ristrette). A far rialzare la curva sono esclusivamente gli immigrati, la cui presenza sempre più decisa dona all’Italia un profilo multietnico. Ancora. Preferiamo abitare in pianura o sulle colline vicino al mare mentre stiamo abbandonando i paesi di montagna. E, dato meno incoraggiante, ci stiamo distinguendo per un nuovo fenomeno legato al momento economicamente non florido. Oltre 71 mila baraccati fra tutti quelli che si accontentano di sistemazioni di fortuna, compresi camper e roulotte. I primi risultati del censimento 2011 ci restituiscono l’immagine di un Paese che per alcuni aspetti immaginavamo diverso. Tante altre sorprese devono essere ancora individuate visto che quelli presentati ieri dal presidente dell’Istat Enrico Giovannini (con l’imprevisto di una manifestazione di precari che protestano contro le assunzioni a tempo determinato) sono soltanto delle anticipazioni ricavate dalle analisi iniziali delle schede inviate per posta (22,6% del totale), via Internet (33,4%) o consegnate agli uffici territoriali (44%). Nel complesso i cittadini hanno collaborato in modo molto fattivo e i rilevatori hanno dovuto faticare in minor misura per recuperare i ritardatari grazie anche all’aiuto di associazioni e istituti che hanno operato soprattutto a favore degli anziani. L’impulso determinante sembra però essere arrivato dai giovani delle scuole che si sono prestati come «testimonial» incoraggiando genitori e nonni a non mancare l’appuntamento. I residenti Le persone che vivono in Italia sono 59,5 milioni, una cifra inferiore all’attesa secondo l’Istat. «Siamo meno dei 60 milioni che immaginavamo di essere» afferma Giovannini. Prevalgono le donne: sono quasi 2 milioni in più rispetto agli uomini: 30.713.702 contro 28.750.942 (52 su 100). Gli abitanti sono cresciuti specie al Centro Nord dove oltre il 70% dei Comuni hanno registrato un incremento demografico. Invece al Sud e nelle isole c’è una tendenza al calo registrata nel 60% dei comuni. Tra i fenomeni da tenere sotto controllo e sui quali riflettere, l’Istat indica l’abbandono dei centri di montagna. Si restringono le famiglie che passano da una media di 2,6 a 2,4 componenti. In pratica oltre ai genitori, neppure un figlio per coppia. Gli stranieri Quasi triplicati in dieci anni, dal milione e 334 mila circa del 2001 a 3.769.000 attuali. L’incidenza è del 6,34% contro il 2,34% di 10 anni fa. Confermata la cronica staticità degli italiani. Gli immigrati sono di più soprattutto in Lombardia, Lazio, Toscana e Piemonte. Sono stati contati solo gli stranieri con permesso di soggiorno, i regolari, e proprio questa scelta spiega alcune incongruenze con i dati di altre fonti, ad esempio i dati anagrafici inviati dai comuni dove evidentemente sono stati inclusi extracomunitari non più a posto dal punto di vista dei documenti, che si sono spostati altrove o sono tornati al Paese di origine. È comunque Brescia a risultare in testa alla graduatoria dei comuni italiani più grandi con la maggior percentuale di popolazione straniera, pari al 16 per cento. Fra i comuni intermedi, in maggioranza in Lombardia, al primo posto c’è Pioltello, provincia di Milano, dove gli stranieri sono il 22% della popolazione totale. Rocca de’ Giorgi, provincia di Pavia, detiene il primato tra i Comuni più piccoli, con il 36,3% di stranieri. I Comuni È Roma il Comune più popoloso con oltre 2 milioni e 612 mila residenti. Invece gli abitanti di Pedesina, in provincia di Sondrio, riuscirebbero a malapena a riempire un palazzo di tre piani: sono appena in 30. C’è molta più confusione a Portici, vicino Napoli, dove oltre 12.300 persone affollano un chilometro quadrato di territorio. Secondo i dati, l’Italia si conferma anche un Paese di piccoli Comuni: ben sette su dieci hanno meno di 5.000 abitanti. Senza casa Sono la triste la novità del censimento. Alla domanda sul tipo di alloggio occupato, 71 mila famiglie hanno barrato la casella relativa a «altri tipi di abitazioni, ad esempio baracche, roulotte o tende». Significa che tre nuclei su 1.000 vivono in condizioni di precarietà con un’incidenza superiore al Sud (3 per mille) rispetto al Nord, 2,5. L’Istat definisce questo aumento vertiginoso, ma rimanda i commenti al prossimo aggiornamento, a giugno. Nel corso del decennio il fenomeno è più che triplicato. Le abitazioni Più edifici. Sono 14 milioni e 176 mila, l’11% in più rispetto al 2001. Oltre 28 milioni e 863 mila le abitazioni occupate in 8 casi su 10 da residenti. Sono stati censiti anche i numeri civici, circa 9 milioni e 607 mila, per la maggior parte di uso abitativo, il resto garage, negozi, unità produttivi oppure ospedali, caserme, università. I costi Il censimento è costato una media di 10 euro per abitante, inferiore alla spesa che normalmente si registra negli Stati Uniti, 34 euro, e superiore al minimo europeo della Gran Bretagna (8,7). Arriveranno dati dettagliati e si potrà avere un quadro costantemente aggiornato attraverso l’invio delle anagrafi da parte dei Comuni. Un flusso continuo di informazioni che servirà anche alle amministrazioni locali per avere in tempo reale il controllo sulle modifiche dei dati del territorio e pianificare interventi mirati secondo le necessità provocate dai movimenti della popolazione. Margherita De Bac FIGLI MENO COLTI DEI PADRI - Scrive Wall Street Journal: il nel corso della storia americana, i figli sono sempre stati più istruiti dei genitori. Oggi non è più così. Gli americani nati nel 1980, quando hanno compiuto 30 anni nel 2010, avevano studiato soltanto otto mesi più dei genitori. Un’inezia, destinata presto a scomparire. Claudia Goldin e Lawrence Katz, gli economisti di Harvard University autori della ricerca, sostengono che questa tendenza avrà conseguenze pesanti. In un mercato globale competitivo, gli Stati Uniti si troveranno presto in difficoltà. «La ricchezza delle nazioni non dipende più dalle materie prime. O dal capitale fisico. Sta nel capitale umano» afferma Ms. Goldin. Alcuni dei motivi del declino nell’istruzione appaiono decisamente americani: i costi del college (primo livello universitario); la scelta degli studenti di non indebitarsi, com’è stata finora la regola. Altre ragioni sembrano comuni a tutto l’Occidente, con poche fortunate eccezioni: il numero crescente di ragazzi che lasciano (drop out) durante le scuole superiori; il fatto che lunghi studi non garantiscano più maggiori guadagni; la fragilità psicologica di una generazione cresciuta in un lungo periodo di prosperità. Un altro elemento che sta allontanando i giovani dagli studi potrebbe essere questo: la minore spinta dei genitori, restii ad avviare i figli verso studi che non procurano gli impieghi o il prestigio sociale di un tempo. L’ambizione delle famiglie asiatiche appare invece feroce, e accademicamente produttiva. Alcune università negli USA hanno dovuto introdurre un sistema di quote per garantire il posto ai ragazzi americani. Un accesso basato soltanto sul merito li avrebbe visti soccombere davanti ai motivatissimi asiatici, che già dominano le migliori università. Assistere a una lezione in un corso undergraduate di Harvard porta a chiedersi, davanti a tanti volti orientali: in che continente ci troviamo? In Europa l’immigrazione è più recente (come in Italia) e, comunque, di origine diversa. Ma il cammino di una generazione sembra comunque segnato. Per motivi demografici ed economici, i giovani inglesi, spagnoli, francesi e italiani staranno peggio dei genitori. E sarà la prima volta che accade. È un’inversione pericolosa per molti motivi. Il primo dei quali si chiama dipendenza. Dipendenza economica, culturale, psicologica. La generazione dei figli del boom (nati tra il 1946 e la fine degli anni 60) appare spesso egoisticamente felice di conservare il primato; ma dovrebbe comprenderne anche l’ingiustizia e valutarne i rischi. Veder ciondolare nella proprie case «la generazione rassegnata» non può costituire motivo di orgoglio: soprattutto in Italia, il paese più anziano d’Europa, quello dove il ricambio s’annunciava comunque più difficile. Cresce il numero dei giovani connazionali convinti che gli studi non servano a costruirsi il futuro. Le rigidità del mercato del lavoro, e gli egoismi generazionali mascherati da editti sindacali, non aiutano. Per questo appare grave la vicenda denuncia ieri sul Corriere dall’on. Guglielmo Vaccaro. La legge «Contresodo/Italians», che concede benefici fiscali a molti connazionali di rientro, approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento nel 2010, è di fatto bloccata dalla mancata adozione di una circolare attuativa da parte dell’Agenzia delle Entrate (sempre solerte quando si tratta della nostra puntualità fiscale). Se non arriverà entro il 27 maggio, l’onorevole Vaccaro ha annunciato le proprie dimissioni, perché — ha detto — «ci ho messo la faccia di fronte a decine di migliaia di giovani italiani potenzialmente interessati al provvedimento». Ma la faccia, davanti alle nuove generazioni, ce l’abbiamo messa anche tutti noi. Non solo verso i 300.000 italiani all’estero con una istruzione superiore (dato OCSE 2011), ma verso i milioni di giovani connazionali che — dovunque — aspettano un incoraggiamento e una prospettiva. Gli Stati Uniti d’America, se le università perdono iscritti e smalto, rischiano il futuro. Noi rischiamo subito: lo dicono il buon senso, l’osservazione e i numeri. L’ha detto anche Mario Monti, più volte, all’inizio del suo mandato, per giustificare i sacrifici richiesti: dobbiamo farlo per i nostri giovani. Speriamo se ne ricordi, il presidente del Consiglio: dei giovani, intendo. Dei sacrifici — lo abbiamo visto — il governo non s’è dimenticato. Ma l’immagine del fiume che, di colpo, prende a scorrere in senso contrario è inquietante. E dovrebbe preoccupare tutti gli italiani adulti, non solo le istituzioni. Creare occupazione «slegando l’Italia» — come auspica Giuseppe Roma, direttore generale del Censis — porterebbe anche a questo: offrire posti di lavoro e retribuzioni che giustifichino anni di studi. Lasciare a chi viene dopo di noi solo una montagna di debito pubblico e pensioni da sopravvivenza: non era quello che sognavamo a vent’anni, o sbaglio? Beppe Severgnini CHI SONO I NUOVI ITALIANI - Dai primi dati sul censimento 2011 illustrati ieri dall’Istat lo spunto più interessante riguarda forse la popolazione straniera. In dieci anni è quasi triplicata, ma in qualche maniera lo sapevamo. Nel 2001 gli stranieri in Italia erano solo 1,3 milioni e in quest’arco di tempo in cui li abbiamo visti aumentare sono saliti ufficialmente a quota 3,77 milioni. È chiaro che a questa cifra bisognerebbe aggiungere un X rappresentato dagli immigrati clandestini, una variabile che per sua natura non si può stimare. Prendendo però il dato ufficiale possiamo dire che 3,77 milioni su un totale di 59,4 milioni di abitanti non è una cifra-monstre. È gestibile. Anche perché, come rilevano i dati Istat, tutto sommato gli arrivi non si sono concentrati sulle grandi città come invece è successo (negativamente) in molti altri Paesi europei. L’immigrazione si è in qualche modo adattata alla struttura molecolare dell’Italia dei mille campanili: lo testimonia il dato secondo il quale gli stranieri che vivono nelle città sopra i 100 mila abitanti sono in totale solo un milione, mentre 1,2 milioni risiedono in centri la cui popolazione è compresa tra i 5 a 20 mila abitanti. Più le nuove presenze si sono diluite sul territorio più il fenomeno è risultato governabile e sono entrate in gioco variabili positive come lo spirito comunitario tipico della piccola dimensione italiana. Sul piano degli arrivi l’Istat ci dice che gli incrementi maggiori si sono avuti nel Nord Est e nel Sud, dove però l’incidenza dello stock di stranieri è ancora modesta. I risultati del censimento ci servono dunque a dimensionare un fenomeno che in parallelo con l’incrudirsi della crisi economica è uscito dai radar politici. Se ne parla di meno e anche le forze politiche che ne avevano fatto un argomento centrale della loro iniziativa sembrano aver cambiato registro. Sicuramente la crisi ha ridotto l’appeal del nostro Paese agli occhi dell’immigrazione e forse ha generato anche qualche flusso di ritorno. Dunque da una parte è un bene che la materia «immigrazione» sia retrocessa nella scala delle priorità dell’agenda politica perché quantomeno segnala il superamento della fase emergenziale. Però è anche vero che, una volta rimosso il problema per i minori flussi di nuova immigrazione, la politica lo ha quasi totalmente dimenticato lasciando da parte tutta quella che dovrebbe rappresentare la pars construens. L’impressione è che noi italiani qualsiasi problema includiamo nella testa di lista dell’agenda politica dimentichiamo che riguarda anche una quota di popolazione straniera. Sintomatico come nel lungo e appassionato dibattito sulla riforma del lavoro mai e poi mai sia subentrata l’idea di operare un approfondimento sulla condizione degli extracomunitari e sulle normative che ne regolano il lavoro in Italia. Eppure proprio perché l’emergenza sembra superata si potrebbe riflettere su alcune novità che stanno maturando. In primo luogo il consolidarsi di una «borghesia» straniera rappresentata da piccoli imprenditori che hanno avviato iniziative pienamente legali e che sono interessati allo sviluppo del loro business e quindi a una sempre maggiore integrazione. Stanno crescendo anche le seconde generazioni di immigrati e i problemi che pongono sono diversi da quelli dei loro genitori. In qualche caso, come quello della comunità cinese, i giovani si presentano addirittura come i possibili protagonisti di un’inedita politica di dialogo. Infine c’è il tema della rappresentanza. Fino a che punto è possibile coinvolgere le comunità etniche nella gestione dei problemi che riguardano la convivenza civile. Può suonare anche per loro la campagna della piena responsabilizzazione? Dario Di Vico