Raffaele Romanelli, "Centralismo e autonomia". Sta in Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di Raffaele Romanelli, Donzell 1995, 30 aprile 2012
Comuni e provincie al tempo dell’unità
1. Le ragioni del centralismo Quindi abbiamo una prima legge varata nel 1847 (editto delle riforme) che modifica il quadro relativo all’organizzazione dello Stato in vigore durante lìassolutismo. Da questa legge deriva la riforma Rattazzi del 23 ottobre 1859, varata in regime di pieni poteri e quindi senza discussione parlamentare (fu un decreto) estesa “provvisoriamente” a tutte le province che venivano man mano annesse. E infine la legge 20 marzo 1865, che dava un ordinamento ai comuni e alle province, anche questa votata senza discussione in Parlamento articolo per articolo: era la conclusione di un dibattito durato cinque anni e che aveva riguardato tutti i temi possibili, ma che alla fine non aveva avuto la forza di una novità costituente. Struttura ispirata all’assolutismo francese basata sui prefetti, funzionari attraverso i quali l’amministrazione centrale controllava un complesso di enti locali a due o tre gradi (da noi province e comuni). Prefetto: rappresentante del governo centrale nella provincia per tutte le questioni, tranne Giustizia e Difesa. Il consiglio provinciale era eletto, ed eleggeva a sua volta una deputazione provinciale (oggi diremmo giunta) che era presieduta dal prefetto (non eletto, ma nominato dal centro). Controllava la legittimità degli atti dei consigli comunali. La deputazione provinciale esercitava anche un controllo di natura economica sulle delibere comunali. Per il resto aveva poteri limitati per via «del carattere spesso artificioso e storicamente meno radicato dei territori provinciali». Sue funzioni effettive: la «viabilità provinciale, la beneficenza legale a favore dei malati di mente, l’istruzione secondaria e tecnica (quando non vi provvedessero altre istituzioni statali)». Però poteva spendere: «Come nel caso dei comuni, peraltro, la legge ammetteva che le province facessero “spese facoltative” su materia di competenza provinciale, e di questa elasticità di competenze molte province seppero col tempo approfittare, dando vita a consorzi intercomunali in materia di viabilità, trasporti, istruzione, uso delle acque ecc.». Nelle province tuttavia si radicarono molti uffici pubblici periferici, «come le intendenze di finanza, i provveditorati agli studi, gli uffici del genio civile, nonché le camere di commercio, gli ordini professionali ecc.» (127-128) Quanto ai consigli comunali erano eletti, ma il sindaco veniva nominato dal re all’interno degli eletti (cioè di fatto lo sceglieva il prefetto). Questo faceva sì che si preparasse un contrasto potenziale tra strutture elette democraticamente e strutture nominate dall’alto, contrasto che al momento si percepiva poco, data la ristrettezza dell’elettorato e il carattere censuitario del corpo elettorali (si trattava in definitiva dei soliti notabili), ma che sarebbe esploso poi, quando il corpo elettorale si sarebbe esteso e con ciò la pressione dal basso su istituzioni e modi di governo. Su questo contrasto tra poteri provenienti dal centro e poteri provenienti dal voto: «Questa gerarchia di poteri territoriali rispondeva ad una logica assolutistica al fondo sospettosa delle autonomie e che, concependo le comunità non come soggetti autonomi, originari, tendeva ad affidarne il governo a strumenti dirigistici e di accentramento. La stessa composizione ibrida che dopo molte discussioni fu data alla deputazione provinciale nel 1865 e, come diremo, la rinuncia a concepire più vasti ordinamenti regionali testimoniavano di quel sospetto e di quella logica che hanno finito col governare i rapporti tra autorità centrali ed enti territoriali lungo tutta la storia dell’Italia contemporanea e si ritrovano, in forme e contesti molto diversi, nelle tre maggiori leggi che hanno riformato la materia nel 1888, nel 1934 e nel 1990. «Fermo restando sempre il criterio della uniformità degli ordinamenti in tutta la penisola, criterio al quale si è derogato solo a tratti con misure eccezionali [1], a quella logica si è però opposto fin dagli inizi, via via integrandovisi nelle forme più diverse, un altro principio, che invece fa perno sull’autonomia locale e sull’autodeterminazione degli enti territoriali, La tensione tra i due princìpi, l’uno che fa emanare il potere dall’alto, l’altro dal basso, domina tutta l’evoluzione del sistema tra Ottocento e Novecento, ma le sue origini possono essere fatte risalire all’epoca della concessione dello Statuto albertino, quando fu adottato il principio rappresentativo. In precedenza, nel Regno sardo, sindaci e consiglieri erano scelti la prima volta dall’intendente (come allora si chiamava il prefetto) e in seguito dagli amministratori uscenti (ma sempre con l’approvazione dell’intendente). Sistemi simili governavano le comunità anche negli Stati preunitari, sia che gli amministratori del comune fossero estratti a sorte tra liste di ottimati, come in Toscana, sia che fossero scelti dall’intendente in apposite liste di censiti, come nel Regno delle Due Sicilie, o che la nomina fosse effettuata su un elenco di nomi pari al doppio degli eligendi, come nel Lombardo-Veneto». Il prefetto aveva il potere di sospendere i sindaci e, per decreto reale, rimuoverli. «Per gravi motivi di ordine pubblico» il re poteva sciogliere i consigli comunali e provinciali e convocare nuove elezioni. Il prefetto vistava le delibere comunali o le annullava. Sulle decisioni economiche, interveniva con la deputazione provinciale (funzioni statuali). Nel Regno esistevano ottomila circoscrizioni comunali. I comuni tenevano tra l’altro io registri dello stato civile e le liste elettorali politiche (funzioni statuali). «Per la legge del 1865 avevano diritto al voto amministrativo i maggiorenti che pagavano “nel comune” una contribuzione “diretta” proporzionale al numero degli abitanti, secondo una scala che andava dalle 5 lire annue nei comuni inferiori ai 3.000 abitanti alle 25 in quelli superiori ai 60.000. Si trattava in sostanza dei possidenti del luogo. Questa concezione patrimoniale del suffragio amministrativo era confermata dal fatto che i contribuenti potevano votare contemporaneamente in più comuni dove pagassero il censo richiesto. I precedenti storici di questa concezione non rendevano invece così ovvio che a votare fossero solo le personew fisiche, e tra di esse i soli contribuenti maschi, che invece, così come avveniva per la legge elettorale politica, era considerato implicito anche in quella amministrativa. Sulle discussioni che si ebbero agli inizi del Novecento su questo punto confronta Romanelli ecc. Il carattere notabilare e non partitico del sistema emergeva infine anche dalle modalità del voto, che era maggioritario di lista, nel senso che l’elettore poteva scrivere sulla scheda tanti nomi quanti erano i rappresentanti da eleggere, risultando eletti coloro che avessero avuto il maggior numero dei voti, senza che vi fossero liste preventivamente presentate. Con la riforma del 1888, mantenuto questo sistema, fu però introdotto il voto limitato, allo scopo di consentire la rappresentanza delle minoranze. Fin dall’inizio si formò un pensiero autonomista (diremmo oggi federalista) che assunse però le forme più varie, dall’impianto autonomistico reazionario a quello più democratico. L’autonomismo vedeva in ogni caso «nell’autogoverno locale un valore intrinsecamente positivo)» [1] «Solo di fronte a situazioni di emergenza, o dovendosi riconoscere la situazione eccezionale di alcuni grandi comuni, si è provveduto con leggi speciali. Significativo a questo proposito è il calo di Napoli, la maggior città italiana del tempo, che tra il 1863 e il 1913 è stata oggetto di 26 leggi speciali, la maggior parte delle quali dedicate al “risanamento”. Mai prima del fascismo di è però accettato di diversificare il regime giuridico dei comuni, preferendosi affrontare la palese iandeguatezza di comuni piccoli e piccolissimi a sopportare gli oneri dello statuto amministrativo comunale con lo strumento dell’accorpamento di più comuni in uno, misura già prevista nella legge del 1865 e che è sempre stata di difficile applicazione per le resistenze dei municipi»