GIUSEPPE MARCENARO, Tuttolibri-La Stampa 28/4/2012, 28 aprile 2012
“Sono Irene Brin, anzi, Longanesi” - Si giudicava bruttissima e odiava farsi fotografare. L’unico scatto che la ritrae, elegantissima e eterea, il ritratto più affine all’immaginario che di lei si possa avere, è di Avedon
“Sono Irene Brin, anzi, Longanesi” - Si giudicava bruttissima e odiava farsi fotografare. L’unico scatto che la ritrae, elegantissima e eterea, il ritratto più affine all’immaginario che di lei si possa avere, è di Avedon. Donna anfora, indossava abiti di chiccheria astratta. Miopissima, da non riconoscere le persone per strada, detestava gli occhiali, sostituiti all’estremo con montature stravaganti tempestate di strass e in forma di farfalla. Invece vedeva, e per- fettamente, le eccentricità e gli sfondoni della gente d’ogni ceto, raccontate nei suoi articoli, sovrani pastiches sarcastici, assiepati di raffinati echi letterari, degni d’essere accolti in una vagheggiabile Antologia del narcisismo egotista. Le italiane della classe rampante dell’età del boom impararono da lei a depilarsi, deodorarsi, curarsi. Esordì firmando Oriane, il nome della duchessa dei Guermantes dell’adorato Proust. Si chiamava in realtà Maria Rossi, una delle migliaia di Maria Rossi di cui è affollato il mondo. Lei, unica. Le eleganti bizzarrie dovevano venirle dalla madre, Maria Pia Luzzatto, nata a Vienna. Aveva passabilmente trasferito alla figlia l’eccentrica e vitalistica aura mitteleuropea che andò coniugandosi con il disincanto e le scettiche ironie linguistiche del padre Vincenzo, un generale di Corpo d’Armata. Sulle pagine del genovese «Il Lavoro» fu ammessa ai misteri del giornalismo dall’allora redattore capo Giovanni Ansaldo. E poiché il padre considerava disdicevole far correre il proprio nome per i giornali, Maria si scelse uno pseudonimo. Diventò la sbarazzina Mariù. Conosceva tutti e a tutti dava consigli stravaganti, al corrente delle geografie del cuore di tutti. Mariù come «maschera letteraria» non poteva però bastare a una come lei. Crisalide mutata in farfalla si chiamò poi Madame d’O., Cecil Wyndham Alighieri, Geraldine Tron, Clara Radjanny von Skevitch, Contessa Clara, nomi di penna con cui firmava articoli su «Omnibus», «Settimana Incom», «Harper’s Bazar», «Corriere delle Sera». La sua fortuna fu cadere nelle grinfie di Longanesi che le modellò il carattere, forgiandola personaggio. La stoffa già c’era. È lei medesima a raccontarlo in una rara scheggia autobiografica. Avvenne nel 1938. Maria Rossi aveva già subito una delle tante mutazioni «genetiche»: allora si chiamava Maria del Corso. Al Ballo della Cavalleria all’Hotel Excelsior di Roma aveva conosciuto il marito, Gaspero del Corso. «Ballammo insieme tutta la sera, parlando di Proust». Longanesi lo incontrò nel suo ufficio romano di via del Sudario. «Fu come iniziare una serie di esperimenti chimici, passando da uno stato di ebetudine ad uno stato di esaltazione, dall’ avvilimento alla rabbia, dalla limpidità al disordine. Longanesi non si limitava a rewrite i miei articoli, ma me. Scoprivo di non aver mai saputo, né visto, né inteso niente». Longanesi le spiegò la politica, la letteratura, l’arredamento, la religione, la cucina, la società, sotto l’apparente disciplina del giornalismo. La indusse a essere più dry, più surreale, più crudele. Come abiti di alta sartoria, le tagliò addosso stile di vita e di scrittura. «Mi inventava, collocando- mi nei miei diversi ruoli e nei miei diversi pseudonimi». Longanesi mangiava i suoi collaboratori. Faceva esperimenti sulle persone. Doveva essere un incrocio tra Pigmalione e dottor Coppelio. Compiuta l’opera metteva il «cartellino» alla sua creatura. «Io non mi chiamo né Irene, né Brin, anche se così figuro in contratti, negli elenchi telefonici, nei discorsi familiari. Sono un nome inventato da Longanesi. Io sono un’invenzione di Longanesi». E in questo Irene Brin esprimeva l’eccesso. Ascendendo a un apogeo di sublime civetteria mimetica, con narcisistica autocompiacenza, esaltava la propria personalità. Esistere in quanto «invenzione». Imprendibile, misteriosa, mutabile. Anche femme fatale. Adesso esce una biografia che tenta di agglutinare tra le pagine di un libro la nobilmente imperturbabile immagine della non catalogabile signora di un giornalismo che non esiste più. Una biografia in cui, grazie al profluvio delle testimonianze di chi la «conobbe» e tentò di «raccontarla», Maria Rossi svapora in un ennesimo ritratto: quello di una donna, il «cui camaleontismo sembra non trovar confini in nessuna legge della natura». Così la vedeva Indro Montanelli.