Emanuela Audisio, Repubblica 30.4.12, 30 aprile 2012
UN PUGNO PER SEMPRE
Mi piaceva il nuoto. Mio padre mi disse: i neri non vanno in piscina. Restai deluso, poi capii. Non ci volevano. Se non eri bianco, ti toccava la porta di servizio
Quando lo hanno eletto, tutti volevano sentire la mia storia. Solo che non profumava. Adesso la stanno facendo pagare a lui. La crisi economica è arrivata con Bush, ma pare che sia colpa sua
Malcolm X è su un francobollo, Luther King su una tazza di McDonald, Ali sulle cartoline, io e Smith sulle magliette. Ci hanno ucciso e siamo merce da 20 dollari?
Lo mandarono da noi a trattare. Parlava come ammaestrato. Non ci vidi più, gli dissi: se lei avesse alzato di più la testa nel ‘36, noi non avremmo avuto bisogno di questo ‘68
Sul ring gli misero una bandierina tra le mani, quando capì che la folla lo applaudiva la alzò sempre di più. Lui era l´eroe, noi i traditori. Ma quando rimasi senza un cent, capì e mi aiutò
Lì ho rialzato il pugno Ho spiegato a quei ragazzi che io sono loro Mio figlio è militare, gli dicono che sono stato un traditore. Ecco io non ce la faccio a dire che le cose sono cambiate
Ai Giochi di Mexico ‘68, terzo nei 200 metri, alzò sul podio il suo pugno avvolto in un guanto nero insieme con l´amico Tommie Smith, il vincitore. Contro la discriminazione razziale negli Usa. Quarantaquattro anni dopo, lo sprinter di Harlem è ancora arrabbiato: "Sono stato lasciato solo, ero infetto. Ce la fecero pagare. Ma a volte i rompiscatole fanno la storia"
È l´altro pugno. Quello sinistro. È lui che disse a Tommie: «Bring the gloves». Smith e Carlos. I guanti neri del ‘68. Quelli che sfondarono il cielo di Città del Messico. John arrivò terzo: si mise la maglia nera, i calzettoni scuri, si slacciò la tuta, abbassò la testa. Alzò il braccio, come Tommie, solo più piegato e da un gradino più basso. L´inno americano suonò, quei pugni lo smascherarono. Non era la terra dei liberi, ma degli schiavi. Carlos aveva 23 anni, oggi ne ha 67. Il ragazzo a cui non piaceva il mondo com´era, oggi è supervisor in una high school di Palm Springs dove si entra passando nel metal-detector. Ha i capelli bianchi, la rabbia è sempre nera. Dice: «Mi sento un sopravvissuto. Per anni nessuno mi ha voluto parlare o avere contatti con me. Sono stato lasciato solo, ero infetto. Poi hanno eletto Obama e tutti volevano sentire la mia storia. Solo che non profumava, non era bella».
Lei veniva da Harlem.
«Sì. Da una famiglia di lavoratori. Mia madre era infermiera notturna, mio padre calzolaio. Aveva combattuto nella I guerra mondiale, l´esercito l´aveva trattato come una merda. Così diceva lui. Harlem era viva e violenta. Al Savoy ci venivano a cantare Armstrong e Ella Fitzgerald e nel quartiere la droga, «King Kong», circolava come acqua dai rubinetti. Però i miei mi facevano rigare dritto, avevo anche due fratelli e una sorella. Correvo veloce, facevo a pugni, mi piaceva Robin Hood, ma il giorno in cui mamma mi beccò a casa con una scorta di marijuana furono dolori. Scelsi lo sport sbagliato, mi piaceva il nuoto, volevo attraversare la Manica, chiesi a mio padre quanti neri avessero vinto alle Olimpiadi».
E lui?
«Rispose: nessuno, figlio mio. I neri non vanno in piscina. Restai deluso, poi capii: i neri non possono andare in piscina. Non ci volevano, lo ricordava anche Harry Belafonte: poteva cantare ed esibirsi, ma sempre entrando dal retro. Se non eri bianco ti toccava la porta di servizio».
Però ora c´è Obama.
«Infatti gliela stanno facendo pagare. La crisi è arrivata con Bush, ma pare che sia lui il responsabile del brutto momento dell´economia, mentre è Bush che ci ha portato sul lastrico. Di cosa vuole che sia contento: Malcom X è su un francobollo, il dottor King è su una tazza di McDonald, Ali è sulle cartoline, io e Smith siamo sulle magliette. La cultura pop ci vende con lo slogan: la rivolta degli atleti neri. Atleti? Eravamo persone. Volevamo dignità e rispetto per tutti. Non solo per gli atleti. Non mi fa schifo la commercializzazione, ma la mancanza di informazione e di conoscenza sulle ragioni di quel gesto. Ci hanno ammazzato e ora siamo una merce da 20 dollari? Non solo mi rubano l´immagine, ma anche la storia dietro».
Sempre arrabbiato?
«Molto. Ribollo, anche 44 anni dopo. Mi dicono di stare calmo che adesso i neri nello sport sono miliardari e guadagnano bene. Ma a me cosa frega? Io vorrei che i neri studiassero, si laureassero di più, che andassero all´università perché c´è chi crede nella loro educazione. Invece c´è chi li illude che lo sport è l´unica scorciatoia possibile, anche se spesso non trovano né una carriera né un diploma. E li chiamano campioni questi che vanno a Londra? Giocano sì, corrono come cavalli bendati, obbedienti al padrone, zitti, per paura di perdere la paga. Mai uno sguardo sulla società, stanno al loro posto, non disturbano lo spettacolo. A parte rare eccezioni: ho ammirato Steve Nash, campione di basket bianco, che si è schierato con i Suns contro la legge razziale sull´immigrazione, ma per il resto da Jordan a Bryant è una pena. E Ozzie Guillen, manager dei Marlins, che a Miami ha dovuto chiedere perdono per aver detto che ammirava Castro? Credevo che in America ci fosse diritto alla libertà di parola. Invece ha dovuto inginocchiarsi e prostrarsi e l´hanno anche sospeso. Ha fatto il bambino cattivo. Ve li immaginate Rosa Parks scusarsi perché sull´autobus voleva restare seduta o Muhammad Ali chiedere perdono per le sue parole contro i bianchi. Ha mai visto qualcuno con la testa schiacciata sotto un piede, chiedere: scusi, per favore, mi può liberare da questo peso?».
Lo sport non fa politica: ve lo dissero anche nel ‘68.
«Nel ‘68 eravamo parte di un movimento che doveva boicottare i Giochi per sensibilizzare l´opinione pubblica. Votammo. Ma un sacco di atleti iniziarono a dire: mia madre ci tiene tanto a vedermi ai Giochi, la mia scuola anche. Insomma, alla fine fecero marcia indietro. Erano le prime Olimpiadi a colori, trasmesse in tutto il mondo. Io e Tommie ci mettemmo in testa di fare comunque qualcosa».
La moglie di Smith comprò i guanti.
«Sì. Lui si mise anche una sciarpetta nera e io una maglia per coprire la scritta Usa. E Peter Norman, l´australiano, una spilla di solidarietà. Non mi aspettavo niente di buono, per quello il mio braccio è un po´ piegato, ero pronto a difendermi da un´aggressione».
Vi diedero dei comunisti.
«Venivo dal ghetto di Harlem, vedevo arrivare Fred Astaire a teatro e con il mio gruppo lo accoglievo con un balletto. Lui mi regalava un dollaro d´argento. È stato il primo a darmi una lezione di vita con la parole: voi fate sempre qualcosa per far divertire il pubblico. Da ragazzo a scuola avevo guidato uno sciopero contro il vitto: ci davano pollo alla salmonella. E io avevo sentito parlare Malcom X».
Vi rovinarono la vita.
«Questo sì. Ce la giurarono. Ci dissero che avevamo finito di vivere. Brundage, presidente del Cio, aveva simpatie naziste. Mandarono Jesse Owens nello spogliatoio a trattare. Jesse arrivò e disse: cosa significano questi guanti neri? non sapete che i calzettoni tirati così alti fanno male alla circolazione? Parlava come se fosse stato ammaestrato. Non ci vidi più e gli dissi: forse signor Owens se lei avesse alzato più la testa nel ‘36, noi non avremmo avuto bisogno di questo ‘68».
Era pur sempre Owens, 4 ori a Berlino.
«Sì, certo, ma al rientro dai Giochi aveva dovuto correre contro un cavallo per guadagnare due lire. L´atleta migliore del mondo ridotto a fare un numero da circo? Owens per me era un eroe, gli avrei perdonato tutto e l´ho fatto, anche perché l´ho incontrato anni dopo in lacrime. Era stato dimenticato in un parcheggio alle tre di notte da gente che lo aveva richiesto come ospite e poi senza nemmeno dargli da mangiare l´aveva abbandonato lì al freddo. Se ne era finalmente accorto anche lui, confessò: per loro sono un fantoccio, mi portano alla presentazioni e poi mi fanno sparire, non ho altra visibilità, avessi fatto di più nel ‘36 vi avrei evitato il ‘68. Alla fine l´ha detto. Mentre Bob Beamon mi mise subito in guardia: ti sei rovinato, ora sei fregato, non troverai più una casa».
Ma fu solidale con la vostra protesta.
«Un po´. Ma non si può essere solo un po´ incinta. Ci sono volte in cui o sei dentro o sei fuori. Non quasi dentro. Dico questo: Bob nella finale del lungo ci arrivò all´ultimo salto. Fu a un passo dall´eliminazione. Lo aiutai, lo consigliai: Bob hai visto come fanno gli aeroplani a volare? Prendono velocità. La tua rincorsa fa schifo, è troppo lenta, non andrai da nessuna parte, allenati con noi, vai veloce, aiutati con le braccia e salta. Lo fece e fu record. Non lo sentii più».
E poi ci fu Foreman che alzò le bandierine a stelle e strisce.
«Pappy Gault, il nostro ct della boxe, ci invitò a vedere le finali. Non ci andammo, per un sesto senso, forse. Foreman che era sconosciuto, vinse, gli misero una bandierina tra le mani, l´agitò prima bassa, appena capì che la folla applaudiva l´alzò sempre di più. Ecco il vero eroe che amava il suo paese e non un traditore come Carlos e Smith. I neri tornavano a essere obbedienti e patriottici, l´incubo era finito. God bless America».
Foreman però fu tra i pochi ad aiutarla.
«Sì, lo ricordo anche nel libro scritto con David Zirin, "The John Carlos Story". Quando ero depresso, abbandonato, senza un centesimo, George fu il solo che capì e mi regalò dei soldi. Un altro aiuto venne da Ted Kennedy che mi scrisse una lettera molto commovente».
Nessun altro?
«No. Quando lavoravo al porto di Los Angeles incontrai Rosi Grier, ex giocatore di football, che mi chiese cosa facessi lì. Risposi che avevo una famiglia da mantenere, avrei pulito anche i cessi. Mi scrisse di contattare un numero, mi rispose Tom Bradley, il sindaco di Los Angeles, che cercò di aiutarmi».
Lei fu spiato e controllato.
«Sì, dall´Fbi. Eravamo sovversivi. Inviarono foto di donne a mia moglie dicendo che erano mie amanti. Non voglio dire che fossi un santo, ma nemmeno uno che saltava da una femmina all´altra. Avevamo figli, mi ero ridotto a dare fuoco ai mobili per riscaldare la casa, ma mia moglie Kim diventò paranoica, entrò in depressione, ci separammo. E quattro anni dopo, nel ‘77, si uccise».
Nel 2006 lei volò in Australia per l´addio a Norman.
«Portammo la sua bara con Tommie. Era un ragazzo meraviglioso, un ottimo sprinter, eppure tornato nel suo paese, fecero sentire anche lui un reietto. A nulla servirono le sue lacrime, gli tolsero l´atletica, lo esclusero dalla squadra. Pagava per una spilletta, per il suo senso sociale. Peter iniziò a bere, ad avere problemi, ai Giochi del 2000 a Sydney nemmeno lo chiamarono. Non faceva più parte della famiglia, solo un brutto fantasma. Ricordo che in quei giorni era morto anche Steve Irwin il documentarista australiano sulla natura. Possibile che un uomo che aveva amato gli animali meritasse affetto e un altro come Peter che aveva amato gli uomini invece no?».
Lei ha rialzato il pugno ad Occupy Wall Street?
«Sì. Ho spiegato a quei ragazzi che io sono loro. Bisogna continuare a lottare: per le nuove generazioni. Sa cosa hanno detto a mio figlio che è nell´esercito? Tu, Carlos, sei figlio di un traditore. Senza fare una piega lui ha risposto: se non fosse per mio padre io oggi non sarei qui. Ecco io non ce la faccio a dire che le cose sono cambiate».
Niente yes we can?
«I can´t. Non posso dimenticare. Non ci aiutò nessuno allora. Ora mi chiamano e fanno gli amici, anche Beamon. Ma dov´erano quando bruciavamo all´inferno? Però una soddisfazione ce l´ho. Dicevano fossi solo un attaccabrighe, ma quasi mezzo secolo dopo il mio nome dice ancora qualcosa. Ai rompiscatole capita di fare la storia».