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 2012  aprile 28 Sabato calendario

[3 articoli] Me voy Si chiude un’era che ha fatto la storia del pallone Il tecnico annuncia la sua scelta in una commovente conferenza-stampa Al suo posto il vice Vilanova Leo Messi non ha voluto guardare, né essere guardato: «Sono molto tristee ho deciso di non essere presente

[3 articoli] Me voy Si chiude un’era che ha fatto la storia del pallone Il tecnico annuncia la sua scelta in una commovente conferenza-stampa Al suo posto il vice Vilanova Leo Messi non ha voluto guardare, né essere guardato: «Sono molto tristee ho deciso di non essere presente. La stampa sarebbe andata a cercare le espressioni dei giocatori, così non me la sono sentita. Ma ringrazio Pep con tutto il cuore per quello che mi ha dato, sul piano umano e professionale». Pep Guardiola se va, lascia il Barcellona dopo quattro anni di successi alla guida della prima squadra (13 trofei, tra cui due Champions e tre volte la Liga), più uno da allenatore del Barça B. Lo sostituirà il vice, la sua ombra in questi anni indimenticabili: Tito Vilanova. Il Pep invece si prende un anno sabbatico, di lontananza dal calcio, poi si vedrà. Finisce un’epoca. Guardiola comunica la notizia nello spogliatoio della Ciutat Esportiva ai giocatori intorno alle 11: «Ragazzi, me ne vado». L’annuncio al mondo, anche se a quel punto è già il segreto di Pulcinella, è del presidente Rosell alle 13.38, nella sala stampa del Camp Nou, mentre è seduto di fianco a Guardiola e al ds Zubizarreta e in platea ci sono molti giocatori (tutti i catalani della cantera ), ma non Messi, che con 201 gol in 212 gare, più tre Palloni d’oro consecutivi, è stato il simbolo della squadra più spettacolare di sempre: il Barça del Pep. Che passerà alla storia, anzi è già storia, ma pag a n d o i l s u o prezzo: Guardiola esce di scena perché ha i nervi triturati da quattro anni di tensioni, gli ultimi due con un certo Mourinho tra i piedi. Pep lo ammette in un discorso c o m m o s s o e tutto in catalano, mica in spagnolo, per riaffermare una volta di più quel senso di appartenenza alla Catalogna che è stato uno dei segreti di questi anni: «Ai dirigenti avevo già comunicato lo scorso ottobre la mia decisione di fermarmi, ma non potevo dirlo ai giocatori né alla stampa perché eravamo in corsa su ogni fronte: mi scuso se questa situazione di incertezza ha arrecato problemi, forse all’epoca è stato un errore non firmare un contratto biennale. Ora che siamo usciti dalla Liga e dalla Champions è il momento di parlarne. Smetto perché sono stanco. Sono completamente svuotato, e devo riempirmi. Quattro anni al Barcellona sono un’eternità: l’altissimo profilo di questo club provoca una grande fatica. Chi verrà dopo di me offrirà qualcosa che io non posso più dare. Non è questione di capacità, ma di energie. Ho bisogno di riposo e di vedere tutto da lontano, o dalla giusta distanza». Mancano ancora quattro gare di Liga (il Real è a +7 e tutti danno per chiusa la questione) più la finale di Copa del Rey, Barcellona contro Athletic Bilbao: Pep sarà in panchina ma l’addio viene annunciato ora per non alimentare altre tensioni. Intanto il bilancio di Guardiola è di 242 partite giocate, di cui 175 vinte, 46 pareggiate e 21 perse: il 72,31% di vittorie, cose da pazzi. Dunque Pep non può non ringraziare i suoi alunni: «Poterli allenare è stato un privilegio: nessuno può immaginare cosa abbia rappresentato per me raggiungere certi risultati e vedere la qualità del gioco che abbiamo mostrato. Li ringrazio per le milioni di giocate e per i successi solo sognati, che grazie a loro sono diventati una realtà. Sono soddisfazioni che non hanno prezzo». Ora per Guardiola si apre il futuro, che lui giura non sarà in panchina: «Il presidente mi ha offerto un altro ruolo, ma ho bisogno di staccare dal mondo pazzo del calcio per un po’. Ora non ho la forza per pensare cosa farò in futuro: non ho avuto contatti con nessuno per rispetto del Barça. Per cinque anni ho vissuto di solo calcio, calcio, calcio... Non so quando mi ricaricherò. Non penso di volermi per forza mettermi alla prova all’estero: non c’è prova più grande di allenare il Barcellona per quattro anni. Poi arriverà magari il giorno in cui dirò "cazzo, voglio tornare" (lo dice in italiano perché risponde alla domanda di un cronista italiano, ndr) e mi troverò una squadra. Altrimenti farò altro, esiste altro al di là del calcio, la mia vita è cominciata senza calcio e un giorno queste cose non ci saranno più, lo dico spesso anche ai ragazzi: guardate altre cose al di là del blackberry». Intantoi giocatori twittano ringraziamenti d’ogni tipo: «Ci hai insegnato il cammino», confessa il capitano Puyol, mentre Fabregas ammette: «Pep era il mio idolo da bambino. Lo porterò sempre nel cuore». Finisce il Barça del Pep: il calcio da oggiè un po’ più triste,e più solo. Andrea Sorrentino L’ULTIMA LEZIONE DI STILE– La lezione d’addio di Guardiolae del Barcellona è un esempio di asciuttezza e sobrietà, e naturalmente di stile. Invece dei soliti palleggi, stavolta il Barça tira dritto in porta. Se avesse giocato così anche contro il Chelsea, adesso sarebbe in finale. Invece della finale, il finale. Senza seconde letture, scenari ipotetici, pettegolezzi. Guardiola è stanco e si ferma. Il Barcellona sceglie il suo vice, Tito Vilanova, fino a ieri celebre solo per essersi preso un dito in un occhio da Mourinho: ora, invece, il dito nell’occhio è lui. Chi va e chi viene, per farlo impiega cinque minuti. Mirabile. Immaginate una cosa del genere in Italia, tipo Moratti con Leonardo o Agnelli con Del Piero. Quanto sarebbero durati tormento e tormentone? Quali intrecci futuristici ci saremmo sorbiti? Quante attese davanti agli uffici di un presidente, sotto la casa di un allenatore? Quante parole mascherate, dubbi, sospetti? Invece, questi catalani spicci e sinceri si sono fatti bastare un paio d’ore di colloquio, poi Guardiola ha parlato con la squadra, infine col mondo, rispettando precedenze e sensibilità. Nessuno ha potuto vedere quello che non esiste, nessuno ha sbirciato nel buco della serratura. E poi, quanto coraggio per non lasciar intristire una storia d’amore. Prima di non avere più nulla da dire, Guardiola e il Barcellona se lo sono detto. L’ultima lezione di classe e di addio, un gol impareggiabile. P.S.: se tra un mese il Pep firmerà per il Chelsea, avete sin d’ora il permesso di usare questa pagina di giornale per arrotolare le pantofole. Maurizio Crosetti LEZIONE DI GUARDIOLA ADDIO CALCIO PER UN PO’ BARCELLONA SULLE Ramblas, da un balcone hanno calato un lenzuolo. "Pep, te vas entero", c’è scritto. Intero, integro. Intatto. Non può essere un lutto quello per un uomo che dice: sono arrivato felice, me ne vado felice. Infatti non è un lutto, l’addio di Guardiola, a Barcellona e in Catalogna: è il senso severo e condiviso che c’è un tempo per ogni cosa, perché ogni cosa ha il suo tempo. Uno per restare, uno per partire. Che si lavora, si fa il meglio ma non si forza per ambizione personale il bene collettivo. Che il potere non è privilegio, è responsabilità e fatica e Pep era stanco. «Sento dentro di me che non posso fare di più», ha detto ieri davanti ai suoi giocatori e alla Spagna intera, ferma e muta davanti alla tv. «Mi domando se valga ancora la pena combattere in questo tempo», aveva scritto qualche settimana fa ad un amico. In questo tempo torbido di guerre sporche, di calcio malato di denaro dentro ad un mondo dal denaro corrotto, in questa brutta battaglia di insulti e dita negli occhi, di violenza, di inganno, di fortune. «Mi alzo ogni mattina alle sei con un compito da portare a casa e non vado a letto fino a che non sono convinto di aver fatto tutto il possibile». Muy Guardiola, si dice di una frase così. Molto Guardiola, molto Catalogna. Pep, il condottiero di una terra antica. Etica, fatica, integrità. Nel passaggio finale dell’addio ieri siè rivoltoa Seydou Keita: è stato una delle mie più grandi fonti di ispirazione, ha detto. Keita, una seconda fila, un giocatore non titolare, un ragazzo del Mali. «Quando volevo sapere se moralmente ed eticamente stavo facendo bene guardavo negli occhi Seydou. Con la sua integrità è stato il mio barometro». Lui ed Abidal, che gli portano via il fegato e torna in campo sempre. «Mi hanno guidato loro». Si sa che gli eroi se ne vanno presto, si sa che la partita più difficile è quella dell’uscita di scena. Pep Guardiola è un eroe: ha l’epica giusta, dice di lui il suo mentore Joan Laporta. Un ragazzo venuto dal niente, un uomo al servizio della squadra-più-che-unclub, un condottiero capace di incarnare un modello che non è solo sportivo ma culturale, sociale, politico. L’umiltà, l’abnegazione, la vittoria. Tredici trofei in quattro anni, la squadra più forte del mondo. «Abbiamo insegnato anche a perdere», dopo le sconfitte silenzio, applausi in campo. A 41 anni, dunque, basta. Perché quattro anni sono il tempo giusto. Perché non sentivo più il brivido che mi avrebbe fatto fare meglio. Perché io sognavo una partita e i giocatori la giocavano in campo, e più di questo non c’è. Perché chi non si ferma non può ripartire. Perché ho bisogno di avere energie per darle. Perché voglio portare a scuola le mie figlie e andare la domenica a mangiare il pesce da Can Titoa Villasar de Mar. Perché voglio leggere e andare in Inghilterra a vedere le partite in curva, nei club. Perché non voglio un altro anno di guerra con Mourinho, non voglio vedere altre dita negli occhi né sentire quella pressione che non è sportiva, è altro. Perché il tempo di questa squadra è finito: questa squadra cambierà e non voglio essere io a cambiarla. Perché i miei due amici si sono ammalati di cancro, perché nella vita si muore e c’è un mondo là fuori. Perché alla fine manca il tempo, e invece io voglio che questo sia il tempo di Tito Vilanova: che ha combattuto il tumore e l’ha vinto, che è un ragazzo cresciuto nei posti dove sono cresciuto io, è uno di noi e se serve un leader si cerca prima in casa, noi abbiamo sempre fatto così, noi facciamo così. E dunque, mi dice seduto accanto a Cruyff - il padre del modello Barcellona, il padre sportivo di Guardiola- un vecchio dirigente del Barça: «Noi siamo ammirati, ma non stupiti della perfezione di questa cerimonia degli addii, perché sapevamo da ottobre che Pep aveva deciso di andare, l’attacco di Mourinho a Vilanova era stata l’ultima goccia. Ma la generosità con cui Pep ha ceduto al suo amico anche il protagonismo è esemplare. Perché è Vilanova, oggi, l’uomo del giorno. Pep gli ha ceduto la squadra e tutto l’onore». Era impossibile, qui nella Ciudad Deportiva lo sapevano tutti, che il ragazzo di Santpedor accettasse l’offerta milionaria del City, del Chelsea, dell’Inghilterra, del Qatar o del Milan di Berlusconi. Impossibile per molti motivi, diciamo. Ma prima di tutto perché non sono i soldi quello che conta. Il presidente del Barca gli ha messo di fronte un assegno in bianco, lui ha sorriso e glielo ha fatto scivolare indietro sul tavolo. Non è questo, no. Sei il padrone, ti adorano, sei un eroe: che altro vuoi, Pep? Riposare. Ritrovarmi. Riprendere in mano la vita. È cominciata, questa avventura, con una partita contro l’Athletic Bilbao. Finirà il 25 maggio di nuovo contro i baschi, sul campo monarchico di Madrid. I catalani contro i baschi, Guardiola contro Bielsa. Ma per gioco, perché l’avversario non sarà sul quel campo. Quello è il calcio "bonito", pieno di spettacolo e di valori condivisi. Il gioco bello, limpio, pulito. L’avversario per Guardiola, era la tentazione e il pericolo di essere risucchiato nella tana del drago e nella morsa del suo veleno. «Mi fermo un anno, magari poi torno». Gli tengono il posto da presidente del Club, mas que un club, perché non c’è un altro come Guardiola che sappia mettere il drago in ginocchio senza neppure sconfiggerlo. Non c’è un altro che lo sappia vincere persino perdendo. Concita de Gregorio