Massimo Lugli, la Repubblica 28/4/2012, 28 aprile 2012
SI AFFLOSCIA
tra le braccia della moglie, singhiozzando, prima ancora che il presidente Mario Lucio D’Andria finisca di leggere la sentenza. Alla parola "assolve..." l’aula, gremita, disseminata di telecamere, cavi, postazioni monitor e fotografi, esplode. Applausi, urla, singhiozzi, scene da stadio. Raniero e Roberta si aggrappano l’uno all’altra mentre Paolo Busco, alto e imponente al confronto di quel fuscello di suo fratello, li stringe entrambi in un abbraccio protettivo.
«C’ È UNA giustizia, una giustizia esiste» urla trionfante mentre una massa di giornalistie cameraman li sballotta, li circonda, li incalza fino a una porticina secondaria da dove, in ascensore, la coppia scende in garage, guadagna la macchina ed esce dal cancello salutata dagli applausi. È la fine di un processo d’appello che ha ribaltato una sentenza satura di dubbi e di domande senza risposte: 24 anni di galera con indizi labilissimi e nessun movente. A Mario Lucio D’Andria, il presidente della Corte d’Assise d’appello, al giudice a latere Giancarlo De Cataldo (lo scrittore cult di "Romanzo criminale" e "I traditori"), alle quattro donne e ai due uomini della giuria sono bastate due ore per ratificare una decisione presa, probabilmente, fin dalle prime udienze. «Non scrivete che il giallo di via Poma è senza colpevole - si era raccomandato il difensore, Franco Coppi - il colpevole c’è ma non è Busco e un giorno verrà preso e punito». Retorica giudiziaria e il grande penalista lo sa bene: dopo il tris di presunti assassini scagionati a ripetizione (il portiere Pietrino Vanacore, il giovane Federico Valle e ora l’ex fidanzato Raniero Busco) l’uomo del tagliacarte (ammesso che sia ancora vivo) può dormire sonni tranquilli.
«Da oggi ricomincio a vivere» mormora Busco nel giorno dell’esultanza e del sollievo. Alla vigilia, scarno e dolente nel suo completino grigio che, probabilmente, non ha mai indossato fuori da palazzo di giustizia, era sembrato sul punto di soccombere allo stress. «Speriamo, speriamo, ormai non mi fido di niente, mi sono già scottato una volta» rispondeva, estenuato, a chi tentava di rassicurarlo. Poi, finalmente, la liberazione: un diluvio di lacrime, la mano stretta spasmodicamente in quella di Roberta (una leonessa che ha scritto un libro neanche male su via Poma ed è andata a difendere il marito dovunque ci fosse qualcuno disposto ad ascoltarla) e la fuga precipitosa verso casa, lontano da microfoni, telecamere e taccuini. Via Anagnino 35, borgata Morena, 35 chilometri e 60 semafori dal palazzo di via Poma 2 («Abbiamo fatto la prova una domenica - racconta Raniero - ci abbiamo messo 45 minuti e senza risparmiare benzina»), grande cancello marrone, palazzina bianca a due piani, sopra i parenti, sotto la coppia Raniero-Roberta coi due gemelli undicenni.
Stamattina, andando in tribunale, il papà ha accarezzato la testa a entrambi: «È l’ultima volta, vero? Poi non ci torni più in tribunale?» gli ha chiesto uno dei due.
Ai ragazzini sono state concesse solo mezze verità ma devono essere più svegli del previsto se due giorni fa gli hanno scritto un biglietto: «Papà, ti vogliamo bene...
Speriamo che finisca presto».
Ancora applausi, urla, lacrime. Il soggiorno, con un divano a U nero e un maxischermo tv è affollato al punto che non si respira, Raniero non si stacca un attimo dalla moglie urla «Siamo liberi, siamo liberi» e tutti rispondono con un «per Raniero e Roberta hip hip... urrà». Poi Raniero deve rifugiarsi al bagno per telefonare visto che il frastuono gli impedisce di sentire. I giornalisti e le televisioni chiamano a ripetizione ma nessuno risponde, la cucina si riempie di roba comprata di nascosto per scaramanzia: champagne, bibite, tramezzini, biscotti. Sul maxischermo, la scena della sentenza viene proiettata a getto continuo. «Se fosse stato condannato non avrei resistito, mi sarei buttata dalla finestra» confessa la mamma di Raniero, Giuseppina, 75 anni, alta e robusta, una bellezza sfinita che, il giorno della condanna è svenuta secca. «Mi hanno dato della bugiarda ma alla fine la verità è venuta fuori» gongola Maria Di Giacomo, la testimone che ha rischiato un’accusa per falsa deposizione: aveva detto di aver visto Raniero a Morena, che riparava un’auto mentre Simonetta cadeva sotto le 29 pugnalate dell’assassino ma il pm non le ha creduto. La festa va avanti finoa sera. Gli amici, i colleghi, i parenti entrano ed escono in un’esultanza corale che non accenna a diminuire. Nei giorni scorsi, l’intera borgata aveva versato soldi su un conto corrente aperto per le spese processuali. «Adesso facciamo una colletta per pagare una crociera a Raniero, Roberta e i bambini, se lo meritano» sussurra uno dei fedelissimi, uno dei tanti, tra amici, colleghi e vicini, che non hanno mancato una sola udienza. Mentre, in via Anagnino 35, si avvicina la prima notte di quiete, dall’altra parte di Roma c’è una famiglia sempre più angosciata: «Siamo destabilizzati da questa sentenza - dice Paola Cesaroni, sorella di Simonetta - cerchiamo di capire il perché sia finita in questa maniera ma non sappiamo darci alcuna risposta».
Magari qualcuno le avesse, le risposte. In questo giallo infinito restano solo domande. (ha collaborato martina di berardino)