Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 29/04/2012, 29 aprile 2012
INCONTRO CON SAHAR DELIJANI
Torinese d’adozione, 28 anni, vive a Torino con il marito italiano.
Iran, la democrazia non può attendere. Il suo romanzo d’esordio, il più conteso alla Fiera di Londra, racconta il dramma del suo Paese sotto il regime dei mullah.
Torino “Volevo parlare del fatto che noi figli dei prigionieri politici siamo cresciuti con l’ombra dei nostri genitori che hanno speso la loro giovinezza in carcere». Sahar Delijani intreccia le lunghe dita affusolate, lo sguardo si incupisce. La scrittrice iraniana è reduce dal Salone del libro di Londra dove il suo esordio è stato uno degli eventi più sensazionali della fiera. Tra i bene informati è rimbalzata la voce su un libro «incredibilmente potente e triste», come ha riassunto il direttore editoriale di Orion, Jon Wood. Tanto che si mormora che per aggiudicarsi Children of the Jacaranda Tree – in Italia uscirà nel 2013 per Rizzoli – gli editori internazionali abbiano sborsato cifre considerevoli, nell’ordine dei sei zeri.
Abbiamo incontrato Sahar a Torino, dove vive da anni con il marito italiano. La prima cosa che colpisce, oltre alla bellezza, è l’età. La scrittrice cresciuta negli Stati Uniti ha appena 28 anni; doveva essere in fasce quando si svolsero gli eventi terribili che racconta nel libro. L’urgenza di scrivere, di romanzare episodi drammatici tratti dalla parabola khomeinista, un fiume carsico che riemergeva continuamente nei racconti della sua famiglia, le è venuto tre anni fa. «Il libro – dice - è nato da un racconto breve, che adesso è un capitolo del libro, in cui si parla delle esecuzioni del 1988. Ma pian piano ho capito che quando scrivevo tornavo sempre su questo tema, che mi risucchiava. Così ho pensato di scrivere un romanzo. Ho costruito delle storie indipendenti ma che piano piano si incrociano».
Teheran, 1988. In quel fatidico anno la rivoluzione khomeinista perfeziona la sua sanguinosa involuzione da «rivoluzione del popolo», come sottolinea più volte con fierezza anche la scrittrice, a dittatura teocratica. Al termine della lunga guerra con l’Iraq migliaia di studenti che un decennio prima avevano rovesciato lo scià sognando la repubblica ma spianando la strada ai mullah vengono perseguitati, imprigionati e uccisi. In galera finirono per anni anche i genitori di Sahar.
Dopo un’infanzia e un’adolescenza di aneddoti spezzati dal dolore che le venivano raccontati dal padre e dalla madre ma anche da altri ex prigionieri politici, lei ha voluto unire i puntini, completare il mosaico. «Il fatto è che in particolare a mia madre non piace molto parlare del carcere. Ogni volta le vengono gli incubi e quindi anche io non insisto troppo. Però a un certo punto ho capito che dovevo parlarne io, che dovevo raccontare di questo periodo ancora pieno di buchi neri. Da un lato volevo rievocare le persone che hanno fatto quella rivoluzione e che volevano la fine della monarchia, ma che poi l’hanno vista trasformata in un’altra cosa. Dall’altro lato trovo sconcertante che ancora oggi non si sappia con precisione neanche quante persone siano state giustiziate: 4.000? 12.000? Molti sono finiti nelle fosse comuni, ed è una tragedia di cui non si parla mai. E tutti fanno finta che non sia mai successo; è questo che volevo denunciare».
Children of Jacaranda Tree racconta cinque storie che partono dagli eventi dell’88 ma che si snodano sino alla «rivoluzione verde» del 2009, che ha visto nuovamente milioni di giovani scendere in piazza per mesi e mesi per chiedere la fine del regime dei mullah. Nella storia – almeno, nelle scarne anticipazioni che ne concedono gli editori - si scorgono vicende molto simili a quelle vissute da vicino dall’autrice – una donna che partorisce in galera; un’altra che rinuncia alla propria vita per accudire i bambini della sorella finita in carcere; una terza che ha perso i figli brutalmente assassinati durante la rivoluzione e si prende cura dei nipoti; poi c’è la storia degli esuli orfani che si ritrovano a Teheran e infine il racconto di una coppia che subisce le conseguenze delle persecuzioni degli anni 80 e che deve fare i conti con la figlia che nel 2009 vuole sapere la verità sui suoi genitori. «Ci sono le storie come quelle dei miei genitori, ma anche le zie e le nonne che ci crebbero, in quegli anni. È la mia storia e al tempo stesso la storia di un popolo», annuisce.
Rispetto a quegli anni ma anche alle delusioni che ne sono scaturite Sahar, però, ha una certezza granitica. Aggrotta le sopracciglia, scuote la testa, decisa. «Mi chiede se i miei genitori si sono mai pentiti di aver fatto la rivoluzione? No, mai». Anzi, i moti del 2009 l’hanno convinta che «c’è un’energia immensa nel mio paese, che non vedo da nessun’altra parte. In Europa i giovani mi sembrano molto più disorientati, in Iran c’è una grande speranza, nonostante le delusioni. E del resto, ogni paese ha i suoi tempi per arrivare alla democrazia». La Persia ha una storia millenaria, può aspettare? «No - sorride – non voglio dire questo, non credo che ci vorrà così tanto tempo».
Quello che la scrittrice sa è che ogni volta che torna in Iran è felice: «Uno degli intenti del libro è anche restituire l’immagine di un paese che non è fatto solo di burqa. Nelle famiglie, nelle case si vive molto liberamente. I giovani sono intelligenti, colti, aperti». Del resto, i genitori decisero di emigrare negli Stati Uniti portandosi dietro Sahar e i suoi fratelli soltanto nel 1998, quando lei era adolescente. Nonostante tutto, la madre voleva essere certa che i figli avrebbero parlato il farsi. «Mi ricordo benissimo la scuola, le gare di scacchi, i giochi, ero felice. Certo, non mi piaceva l’ora di religione. Ma a quale bambino piace l’ora di religione?».