Claudio Cerasa, Rolling Stone gennaio 2011, 27 aprile 2012
VIA POMA, UOMINI CHE (FORSE) UCCIDONO LE DONNE
Vent’anni dopo siamo ancora a quella sorridente ricciolina in bianco e nero fotografata con le gambe stese su un telo di spugna poggiato su una poco confortevole spiaggetta di uno squallido litorale romano. Vent’anni dopo siamo ancora alle raffinate disquisizioni sulle evoluzioni delle indagini, sui rilievi della scientifica, sulle attendibilità dei testimoni e sulle ultime documentazioni fotografiche in base alle quali i pubblici ministeri continuano a valutare appassionatamente le compatibilità delle arcate dentarie degli ex fidanzati della ragazza romana. Vent’anni dopo la parola Cesaroni ha persino fatto in tempo a trasformarsi nel titolone di una fortunata serie televisiva ambientata nell’allegro quartiere periferico della Garbatella, ma nonostante le spensierate performance del gagliardo Giulio, interpretato da Claudio Amendola, e della dolcissima Elena Sofia Ricci, nella parte di Elena, la verità è che Cesaroni resta ancora per la capitale il cognome che ha terrorizzato per anni un’intera generazione di pischelletti romani. E quando pensi a quel cognome, a Roma, diventa tutto un flash: la palazzina liberty, gli ingressi a forma di portici, le colonne ricoperte di travertino, le fontane di marmo fasciate di oleandri e poi il portiere, il fidanzato, l’architetto, la notte del sette agosto, il reggiseno slacciato, i seni scoperti, il top arrotolato, le mutandine strappate, i calzini bianchi, le scarpe da ginnastica e soprattutto il nome di quella stradina incisa sul marmo di uno dei palazzi ormai più popolari di Roma: via Poma.
Ho vissuto per quindici anni a ottocento metri dalla scena del delitto più famoso degli ultimi vent’anni. Via Poma è una stradina nel cuore del quartiere residenziale Prati, una zona di vecchi cannetti a due passi da San Pietro, a pochi metri da viale Angelico, a tre fermate dallo stadio Olimpico, piena zeppa di studi di avvocati, di caserme di militari, di licei fricchettoni, di terrazzi di giornalisti, di studi di registi, di agenzie fotografiche, di case cinematografiche e di elegantissime scuole medie ed elementari. E chiunque all’epoca frequentasse quelle scuole, davanti a via Poma ci passava ogni giorno – e solitamente, lo dico per esperienza, ci si pisciava sotto. C’era chi deviava, chi accelerava, chi temporeggiava, chi si scoraggiava e chi semplicemente, ogni volta che sfiorava il cancello del palazzone da cui non molto prima era uscito il corpo freddo di Simonetta, chiudeva gli occhi e subito se ne scappava.
Per anni e anni, a Roma il caso Cesaroni è stato il simbolo del ventre sofferente di una città che da decenni si ritrova condannata a convivere quotidianamente con l’insostenibile peso dei suoi misteri irrisolti: un flusso continuo di indecifrabili enigmi che spesso costringe il romano a ritrovarsi come se fosse protagonista di un grande giallo in cui quei delitti vivono insieme tutti quanti senza che sia più possibile distinguere i singoli particolari: da via Poma all’Olgiata, da Emanuela Orlandi a Marta Russo e così via. E in quel periodo, per chi abitava nel quartiere del grande giallo, del giallo di Simonetta, era facile avere un amico che viveva a via Poma, una compagna che era figlia di uno dei portieri, una maestra che abitava vicino alla casa di Simonetta, un conoscente con lo studio di fianco al luogo del delitto. Ed è facile immaginare come ognuno di noi, ognuno dei compagni, su via Poma aveva un flash sinistro: c’era chi in quella via giurava di aver visto più un’ombra sospetta; chi scambiava ogni fruscio per una minaccia; chi raccontava di una confidenza segreta; e chi ogni giorno ripiegava in una cartellina spiegazzata i dettagli di quella storia così travagliata. Una storia ambientata in una Roma che in quei giorni era terribilmente assetata di notizie. Era quella la Roma delle rivoluzioni urbanistiche, la Roma dei Montezemolo con i primi telefoni cellulari, ma era soprattutto la Roma delle sue storiche notti magiche dei campionati mondiali: con Zenga, Schillaci, Maradona, Matthäus, Brehme, Caniggia, Taffarel e tutti gli altri. E fu proprio la fine dell’epica nazionalpopolare dell’appena concluso campionato Mondiale che in quei primi giorni di agosto aveva contribuito a creare una domanda di notizie che dopo le cronache calcistiche sarebbe stata possibile soddisfare solo se ci fosse stato un’altra grande storia da raccontare. Ogni estate, si sa, i giornali privi di grandi spunti suggeriti dall’attualità si rifugiano nelle paludi della cronaca per scovare indicazioni utili a saziare i lettori sempre più affamati di storie che valgano il prezzo del biglietto, e riempire le pagine con le notizie sulle spiagge chiuse per improvvise invasioni di meduse, o con drammatici reportage sugli ultimi esemplari di balene rinvenuti sulle coste della Papa Guinea, può essere utile per qualche settimana ma alla lunga un pochino stanca: e anche per questo, e soprattutto in quel periodo, i misteri di via Poma arrivarono in un momento semplicemente perfetto. Ma c’è di più. Come oggi cinicamente ricordano molti cronisti che vent’anni fa scarpinarono a lungo tra le rampe liberty degli ampi androni del palazzo di via Poma, beh, il delitto di Simonetta arrivò non solo nel momento giusto ma anche nel posto giusto. Perché chiunque avesse avuto la possibilità di passeggiare negli anni Novanta attorno a quella via che pareva stregata sapeva che una delle ragioni per cui via Poma ebbe una così grande, per non dire maniacale, copertura da parte delle forze giornalistiche era facile da comprendere: via Poma si trovava giusto a pochi metri dai palazzoni di Viale Mazzini, la sede storica della Rai, e non è dunque poi così complicato capire quale ghiotta occasione fosse per i cronisti seguire il delitto del secolo a due passi due dalla propria scrivania. Ma, oltre a soddisfare l’esigente pubblico maledettamente desideroso di notizie, quella straordinaria copertura mediatica contribuì a creare un vero e proprio cortocircuito attorno all’omicidio. Il delitto di Simonetta è stato infatti uno dei primi casi in cui gli inquirenti si sono ritrovati a dover fare i conti con una così imponente opinione pubblica che altro non chiedeva a poliziotti e investigatori di tirar fuori, con una certa fretta, quel dannato omicida. E si sa: quando il pubblico ringhia affondando i denti sul collo degli investigatori – datece er mostro, datece l’orco, datece subito quel maledetto assassino –chi dirige le indagini si ritrova nelle condizioni di mollare ogni tanto qualche osso al cane affamato. E di ossi, le strade di via Poma, ne sono piene da quasi vent’anni. Il primo osso si chiamava Pietro Vanacore: era il portiere dello stabile di Simonetta, venne accusato di aver ripulito il luogo del delitto, fu incastrato per un paio di macchie di sangue ritrovate sul tessuto dei propri pantaloni e fu arrestato per ventisei giorni; poi si scoprì che quelle macchie non erano di Simonetta ma erano proprio di Pietro (che sì, soffriva di emorroidi), quindi Pietrino uscì dal carcere, continuò a vivere per un po’ a Roma, poi si trasferì in Puglia e a vent’anni di distanza dall’arresto, il 9 marzo di quest’anno, tre giorni prima della sua testimonianza alla prima udienza (sì sì: la prima) del processo di via Poma, Pietrino è stato ritrovato morto sulla spiaggia di Torre Ovo, vicino Torricella, in provincia di Taranto; e poco lontano dal luogo dove venne ripescato il corpo furono recuperati anche due biglietti sul sedile della sua auto. Il primo: “Venti anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”. E poi il secondo: ‘‘Vent’anni di persecuzioni: sono stanco delle angherie’’. Il secondo osso dato in pasto ai cronisti si chiama invece Raniero Busco: ha 44 anni, due figli, una moglie e un’accusa di omicidio sulle spalle. Busco è stato l’ultimo fidanzato di Simonetta, ha incontrato la ragazza la sera prima dell’omicidio e l’indizio principale contro di lui risulta essere l’impronta di un morso rinvenuto sul seno sinistro della ragazza, fotografato durante l’autopsia e considerato dall’accusa corrispondente all’arcata dentaria proprio dell’ex fidanzato. Questo, solo questo: perché vent’anni dopo a via Poma molto altro non c’è: solo una traccia genetica estratta dalla saliva di un indagato che con tutta la buona volontà possibile si fa fatica a considerare una prova schiacciante. Ecco sì, difficile non ammetterlo: chiunque sia stato in qualche modo a contatto in questi anni con l’universo in cui si è generato il misterioso caso di via Poma ha avuto la possibilità di accorgersi di un particolare che non può essere sfuggito neanche all’occhio dell’osservatore più distratto. Inutile girarci attorno: col passare del tempo il delitto di Simonetta è diventato l’esempio perfetto di quali siano i più velenosi tra gli ingredienti con cui un’inchiesta giudiziaria può trasformarsi in una polpetta avvelenata: indagini infinite, esami inadeguate, prove irrilevanti, interrogatori fuorvianti, indagati innocenti e piste il più delle volte completamente toppate. E che il caso di Simonetta sarebbe stato quasi impossibile da risolvere ce ne accorgemmo una mattina di quindici anni fa, quando tra gli articoli raccolti nella speciale rassegna organizzata dagli studenti del quartiere spuntò fuori una notizia che speravamo fosse falsa; e che invece, dannazione, era proprio vera. La notizia riguardava i risultati di quella che all’epoca veniva definita una “tecnica di indagine rivoluzionaria” e che invece, in fin dei conti, si rivelò essere un mezza cialtronata. La storia della comparazione genetica con il sangue prelevato dalle vene di una quindicina di indagati, e le successive entusiastiche dichiarazioni degli investigatori che ripetevano alla stampa di essere ormai “prossimi alla cattura dell’assassino”, si trasformarono in un boomerang che fini dritto negli occhi degli investigatori. E le famose tracce rosse lasciate dall’assassino sulla porta della stanza dove Simonetta venne torturata vennero clamorosamente custodite per un giorno intero non nel fresco di un laboratorio specializzato ma nel caldo umido di un obitorio romano. Forse in pochi oggi se ne ricordano, ma di quel pasticcio gli investigatori se ne accorsero solo il 23 agosto, 16 giorni dopo l’omicidio: quando il sangue incriminato si era di fatto volatilizzato proprio come le uniche tracce dell’assassino di quella ricciolina della foto in bianco e nero.