Gabriele Romagnoli, la Repubblica 27/04/2012, 27 aprile 2012
MOU IN GINOCCHIO, L’EROE DIMENTICATO
Rialzati. Ripigliati. Ritrova te stesso: in ginocchio, con le mani in tasca e lo sguardo sperduto non sei niente di Speciale. E adesso chiariamolo: tifare contro è la scorciatoia dei frustrati, un interruttore della felicità che accende lampadine bruciate.
Per cui non si restituisce a Mou e al Real quel che è stato riservato a Guardiola e al Barcellona. Anche chi non lo ama ha perso qualcosa: guardare la finale tra Bayern e Chelsea è come andare al cinema per vedere Javier Bardem e Penelope Cruz in un film hard diretto da Almodovar, tutto esaurito, vabbè nell’altra sala c’è una commedia con Hugh Grant e Diane Kruger. A casa. Con Mourinho. Noi sul divano, lui di fronte, in ginocchio per sempre: ci facciamo un poster. Non per tifare contro, non c’è più partita: soltanto per ricordare. C’è una nobiltà nella sconfitta. L’affronti in piedi, ti sfonda i polmoni e un attimo dopo sei ancora lì, a respirare il futuro. Chi si ferma è perduto, chi s’inginocchia ha perduto.
Mourinho è un personaggio straordinario. Tutti quelli che lo hanno incontrato dicono la stessa frase: «E’ un capo, te ne accorgi subito, lo senti». Potrebbero dirlo prima ancora di averlo incontrato, lo pensano già. Gliel’ha fatto pensare lui. Ha creato una proiezione di se stesso che anticipa la realtà. Esiste a propria immagine e somiglianza: «la mascella scolpita di un rude cowboy che fuma, un marinaio bruciato dal sale e dalla (s) fortuna», l’interprete di un film scritto, diretto e interpretato da lui stesso.
Un grande successo, una sceneggiatura fatta quasi esclusivamente di scene madri: Mourinho che fa il gesto delle manette, Mourinho che dice battute memorabili («sento il rumore dei nemici, e mi piace», «neppure Gesù era simpatico a tutti», «zero tituli»), Mourinho che piange dopo aver battuto il Bayern. E adesso Mourinho in ginocchio, battuto dal Bayern. Ma pensa: che perfette simmetrie disegna il destino. Poi dice che uno ha la tentazione della fede. Non è che davvero esiste un dio infinitamente giusto e sta lassù ad occuparsi dei peccati umani, prende nota: eccesso di hibris, troppa superbia fanciullo, giù, in ginocchio? O è soltanto un’altra trovata della regia? Arriva l’eliminazione e che cosa mi metto addosso? Un bel vestito di normalità. Domani scriveranno di umanità ritrovata, come dopo le lacrime; qualcuno cospargerà di zucchero la mia testa, non sfuggirà l’eleganza dell’ensemble scuro. Quanti articoli trovate sull’esultanza dell’allenatore tedesco? Com’è che si chiama? Quando ai mondiali del 2010 il Giappone fu buttato fuori ai rigori il suo ct, Takeshi Okada, non fece una piega, né ai gol fatti né ai gol presi, né durante né dopo. Raccolse ironie: scrissero che aveva avuto una paresi. Alla fine disse: «Se siamo usciti è colpa mia». Sindrome nipponica, diagnosticarono: addossarsi il peso del mondo, sciabolarsi la pancia se non funziona. Giù il cappello, piuttosto: nel dominio della lotta l’uscita di scena dello sconfitto (come del vincitore) diventa un trionfo se si ammanta d’impassibilità.
Prendi l’esito, quale che sia, lo incarti, te lo porti via e vai a rovesciarlo in quel calderone di opportunità che è domani. «Domani è un altro giorno», ha detto Mourinho tuffandosi in un minestrone di banalità che comprendeva anche «la lotteria dei rigori», «sono passati loro perché ne hanno segnato uno di più» fino all’inevitabile «non hanno vinto i migliori». Invece è così. È sempre così. Perfino quando vince lui, quando vince il Real, quando ha vinto l’Inter, il Chelsea, il Porto. Un solo dato sconfigge il relativismo: il risultato.
Annulla il valore, decreta l’effetto e riconosce una sola causa: ha vinto chi ha saputo farlo e quello è il migliore. Non lo sei, per esempio, se non hai ancora capit o c h e a l l a « l o t t e r i a dei rigori» devi far partecipare quelli che non hanno mai pescato biglietti milionari.
Non vinci con Cristiano Ronaldo, ma con Fabio Grosso. È scritto nella storia, se non l’hai studiata è colpa tua. La differenzaè che Takeshi Okada lo sa, e ineffabile ammette. Mourinho lo sa, ma ribalta lo specchio per non guardare.
L’immagine resta, tuttavia. Un uomo come tanti, che non pensava di poter perdere. Ogni bellezza è crudele, quella del destino si eleva a potenza: è meraviglioso e ferale vedere come si stanca dei suoi eroi e li punisce. È da poveretti gioire perché squadre e allenatori normodotati hanno mandato a casa il Barcellona e Mou. Ma è giusto e liberatorio dirci che non ne potevamo improvvisamente più di quella tiritera di passaggi orizzontali da un lato e di quell’automitologia dall’altro. E pure Almodovar fa qualche boiata pazzesca.
Dopodiché, se tifassi per una squadra vorrei l’allenasse Mourinho. Ma per fortuna ho smesso di tifare.