Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera 27/4/2012, 27 aprile 2012
Forzando un po’ le cose, ma solo un poco, la scena politica italiana si presenta grosso modo così: i vecchi partiti boccheggiano e i nuovi, sebbene annunciati, non si sa ancora se, quando e come vedranno mai la luce; alla ribalta sembrano così rimanere sempre più solamente le persone
Forzando un po’ le cose, ma solo un poco, la scena politica italiana si presenta grosso modo così: i vecchi partiti boccheggiano e i nuovi, sebbene annunciati, non si sa ancora se, quando e come vedranno mai la luce; alla ribalta sembrano così rimanere sempre più solamente le persone. Le persone-partito da un lato, le persone-istituzioni dall’altro. Da una parte, cioè, Vendola, Di Pietro, Pannella (in questo senso un vero antesignano), Grillo e Bossi (sia pure molto malconcio): tutti e cinque padri-padroni e mattatori di formazioni tutte all’opposizione che senza di loro molto probabilmente non esisterebbero, ma che oggi raccolgono, comunque, almeno un quarto dell’elettorato. E dall’altra parte — ad essi virtualmente contrapposti non per loro volontà, ma per il solo fatto di essere le ultime trincee del sistema politico — Mario Monti in rappresentanza dell’istituzione governo, e insieme a lui Giorgio Napolitano, titolare dell’istituzione presidenza della Repubblica. I vecchi partiti, invece, se ne stanno più o meno tutti nascosti al coperto dietro Monti e Napolitano. Sentono che il futuro non è tanto nelle proprie mani, non dipende tanto dai loro tentativi più o meno credibili di «cambiare» (quasi sempre fuori tempo massimo), quanto piuttosto da ciò che succederà in tre ambiti cruciali, ormai, però, pressoché fuori dalla portata di ogni loro eventuale intervento modificatore: la dimensione dell’astensionismo, la misura del successo delle formazioni dell’antipolitica, infine ciò che deciderà Monti circa il proprio destino politico. La realtà ultima del nostro sistema politico è questa. Con una precisa chiave di lettura che si impone su ogni altra: la forte tendenza alla personalizzazione leaderistica. Tendenza che percorre come un filo rosso l’intera crisi della Repubblica in corso da vent’anni; che si afferma irresistibilmente tanto nella politica che nelle istituzioni; che è conforme ai tempi e all’esempio delle altre maggiori democrazie; che è assecondata dal consenso di quote ormai maggioritarie dell’opinione pubblica. Ma che invece fa a pugni con i più radicati pregiudizi sia della nostra cultura partitica tradizionale, tutta imbevuta di un finto parlamentarismo, sia di quella della maggior parte dei costituzionalisti i quali, ideologizzati non poco e attratti dal miraggio di un sempre possibile ingresso alla Consulta, si sono sempre mantenuti su posizioni di rigido conservatorismo. Accade così che mentre una larga maggioranza di italiani esprime la propria fiducia nell’orientamento decisionista a forte caratura personale rappresentato dalla coppia Monti-Napolitano; mentre la massima parte della protesta contro le degenerazioni del sistema politico si aggrega anch’essa intorno a figure individuali di leader; mentre tutto questo avviene, i vecchi partiti, invece, si mostrino assolutamente sordi alla voce dell’opinione pubblica. La nuova legge elettorale a cui stanno pensando in maggioranza i partiti, infatti, ripercorre con qualche correzione le vie del vecchio proporzionalismo, lasciando quello italiano tra i pochissimi elettorati europei destinati a non sapere, la sera delle elezioni, chi li governerà a partire dall’indomani. Anche se poi, per confondere le acque, qualche leader lascia trapelare che per il dopo elezioni potrebbe magari, chissà, pensare a un nuovo governo Monti sorretto da una maggioranza di unità nazionale. Come dire: intanto ripigliamo in mano il gioco alle nostre condizioni, poi eventualmente penseremo a convincere l’ostaggio necessario a tenere buono il popolo.