Serena Danna, Corriere della Sera 26/4/2012, 26 aprile 2012
Jobs, un profeta senza scrupoli – Non lasciatevi suggestionare dal titolo: Contro Steve Jobs, il pamphlet di Evgeny Morozov in uscita per Codice, lungi dall’essere una feroce critica al fondatore della Apple, riesce meglio di monumentali biografie a rendere giustizia alla genialità di un uomo tanto celebrato ma, di fatto, poco compreso
Jobs, un profeta senza scrupoli – Non lasciatevi suggestionare dal titolo: Contro Steve Jobs, il pamphlet di Evgeny Morozov in uscita per Codice, lungi dall’essere una feroce critica al fondatore della Apple, riesce meglio di monumentali biografie a rendere giustizia alla genialità di un uomo tanto celebrato ma, di fatto, poco compreso. Morozov, 27 anni, studioso di new media alla Stanford University e collaboratore della «Lettura», analizza il lavoro svolto da Walter Isaacson nella sua agiografia del capitano d’industria, passa in rassegna centinaia di articoli e saggi per arrivare alla conclusione che, quando si tratta di Jobs, pochi riescono ad andare oltre le definizioni: «filosofo del XXI secolo», «innovatore», «rivoluzionario» restano spesso etichette vuote, incapaci di spiegare il retroterra culturale di Jobs e tanto meno la natura stessa della sua rivoluzione. «Il fatto che tutti i libri dedicati di recente a Steve Jobs dicano così poco del suo profilo intellettuale — scrive Morozov — è di per sé stupefacente, dato che l’osservazione e l’analisi della Apple sono ormai diventate un business». Per la verità, all’inizio il giovane bielorusso prova anche a rispettare la promessa del titolo, evidenziando le contraddizioni di un uomo che si professava buddista e poi ha lavorato tutta la vita «per ridurre i tempi necessari all’avvio del computer (...). Ma se sei un buddista che fretta hai?»; che predicava il distacco dagli oggetti materiali «per poi metter in piedi una società simbolo per eccellenza del feticismo digitale». Ma l’acume di Morozov sta nello svelare subito che nello spiritualismo scelto da Jobs — la cui giovinezza era stata caratterizzata da pellegrinaggi in India, vita nelle comuni e dalle bizzarre teorie di Arthur Janov — si intravedeva già quello più market-oriented: «In America il buddismo — scrive lo studioso — è più di una religione: è un brand che vende molto e non soltanto in California, a giudicare dall’interminabile serie di libri che contengono nel loro titolo Lo zen e l’arte di…». Per Morozov l’ideale della purezza di Apple (espressa nella scelta del bianco), l’oggetto come emanazione della Verità, il platonismo industriale non hanno a che fare con la religione, ma con l’architettura e il design, «le due discipline che hanno instillato in Jobs le sue ambizioni intellettuali». È stato il celebre architetto Walter Gropius a celebrare «arte e tecnologia, una nuova unità», e proprio le idee della scuola di design tedesca — dal Bauhaus alla Scuola di Iulm fino alla fabbrica di elettrodomestici Braun — hanno ispirato Jobs nel corso della sua carriera. Prendiamo Dieter Rams, il famoso designer della Braun, uno dei massimi ispiratori delle forme Apple: il suo manifesto degli obiettivi del buon design puntava a realizzare oggetti «che fossero come i maggiordomi inglesi: sempre presenti, ma invisibili e discreti». Come l’architettura razionalista tedesca si sentiva l’unica capace di rispondere all’esigenza dello Zeitgeist (lo spirito del tempo), così Apple, decenni dopo, si riappropria dello stesso messaggio: «La Storia parla; i designer si limitano a tradurne il messaggio». La grandezza di Jobs non sta solo nell’aver fatto sentire i consumatori protagonisti della storia dell’innovazione ma, scrive Morozov, «ha permesso a chi si è perso tutti i momenti cruciali della sua epoca di partecipare a una battaglia che lo potesse davvero coinvolgere: la battaglia per il progresso e per l’umanità». O, per dirla con le parole di un ex direttore del marketing Apple, «tutti noi ci sentiamo come se avessimo mancato l’appuntamento con il movimento dei diritti civili, la guerra in Vietnam. Al loro posto abbiamo avuto il Macintosh». Negli ultimi dieci anni (che sono quelli del rilancio del marchio con l’iPod, l’iPhone e l’iPad e degli introiti raddoppiati) l’azienda di Cupertino non ha venduto solo oggetti all’America post 11 settembre ma «una terapia basata sulla tecnologia», proprio come nella Germania del secondo dopoguerra la Braun ha favorito il passaggio da un’estetica fascista a una estetica del quotidiano «nutrita dalla diffusione di efficienti e stilosissimi prodotti elettronici». Questa filosofia, unita all’intuizione che i «mercati non si conquistano, si creano» (sulla scia delle teorie di Roy Sheldon ed Egmont Arens, autori del fondamentale Consumer Engineering), ha fatto di Jobs un uomo capace di permettersi qualsiasi cosa: anche di rispondere così a Danielle Mitterrand, moglie dell’ex presidente francese, che, in visita a una fabbrica, gli poneva domande sulle condizioni dei lavoratori: «Se la first lady è tanto interessata al benessere dei lavoratori, può venire a lavorare qui quando vuole». «La scienza di costruire i consumatori — osserva Morozov — può giustificarsi solo sulla base dell’idea che il designer sia una specie di profeta che ha accesso ad una verità più profonda da diffondere quanto più ampiamente ed evangelicamente possibile, ma allo stesso tempo senza scrupoli». Ed era stato proprio il già citato Dieter Rams, maestro tedesco del design, a definire i suoi colleghi come persone che «possono offrire un contributo tangibile allo sviluppo di un’esistenza più umana sulla Terra».