Mirella Serri, Sette 26/4/2012, 26 aprile 2012
IL DIVO CENSORE
«Mi raccomando, carissimo, il decoro nazionale non deve essere messo a repentaglio»: Giulio Andreotti non ancora trentenne, intrecciando le dita in posa curiale, esortava così l’elegante Conte rosso, ovvero Luchino Visconti. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo, il giovane politico aveva convocato il blasonato regista di sinistra per assicurargli che avrebbe sostenuto il suo ultimo, controverso parto, La terra trema. Manterrà la sua promessa, il Divo Giulio? Dopo aver lisciato il pelo con maniere cortesi al temibile Luchino, molto supportato dal Pci, Andreotti constaterà nel film «l’assenza di ogni idea religiosa» e senza troppo clamore ne boicotterà l’apparizione nelle sale.
Un incidente di percorso nel rapporto con cineasti e uomini di cultura? Proprio non sembra: il tira e molla con Visconti non è un caso isolato nella biografia del politico scudocrociato che nel Dopoguerra faceva il bello e il cattivo tempo nello spettacolo. Un altro “incidente” gli capitò con Roberto Rossellini che era sul punto di compiere “un gesto disperato” per l’assenza di finanziamenti a Europa ’51. L’autore di Roma città aperta ottenne il sospirato appoggio, ma dopo averglielo concesso per evitargli il suicidio, Andreotti operò di bisturi sul copione del film in allestimento. Ne cambiò addirittura il finale poiché quel testo, anche «se esprime una profonda significazione umana», rischiava in epoca di Guerra fredda di far segnare un «uno a zero in favore della Russia». A riportare in luce la metafora calcistica del senatore, insieme a molte altre notizie inedite sul vero volto di Andreotti, è lo storico Giovanni Sedita, che sta scrivendo un libro sul rapporto tra la Democrazia cristiana e la censura. In questo volume confluirà sia il saggio su Giulio Andreotti e il neorealismo, uscito di recente su Nuova Storia Contemporanea, sia altri materiali mai pubblicati e ora anticipati da Sette. Emergono, dunque, dai documenti ritrovati negli archivi di Stato e in quelli del leader della Dc, tratti fino a oggi del tutto impensabili nell’impostazione culturale del futuro presidente del Consiglio. Sconosciute sono l’ampiezza e la pervasività dei suoi interventi su artisti e uomini di cinema che appaiono pensati come tanti tasselli di un progetto di sfida al Pci in epoca di Guerra fredda.
E non basta. Il devoto sottosegretario che esortava il cinema alla pratica delle “virtù teologali” teneva tanto al suo progetto da essere pronto a sacrificare sull’altare della sua ambizione persino i suoi migliori funzionari, come appare ora da questi materiali. Andreotti e la Commissione censura, a cui lui stesso aveva dato vita, non risparmiarono quasi nessuno dei capolavori del neorealismo. Mentre si proibiva l’uscita del peccaminoso Gioventù perduta di Pietro Germi (su cui poi il Torquemada dell’intellighentia fu costretto a fare marcia indietro), si bacchettava, per le scene di “passioni selvagge e delittuose”, Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis e ci si esercitava pure nel tiro a segno sul celebre Ladri di biciclette. Non sapendo a che santo votarsi per denigrare il capolavoro di De Sica, Andreotti era giunto alla conclusione che quel film non rispettava le regole sindacali per via della scelta di attori non professionisti bensì presi dalla strada: come il piccolo Bruno, che diventerà il simbolo del neorealismo. Nemmeno Miracolo a Milano – che con la favola del ragazzino Totò otterrà la Palma d’oro al festival di Cannes – fu ben visto dal Divo Giulio. Andreotti ancora una volta aveva fatto grandi promesse senza mantenerle e il tartassato De Sica minaccerà di «abbandonare il Paese». Solo dopo questo ricatto verranno superati i paletti della censura.
L’esigente politico non apprezzava neppure Umberto D., costellato di battute inaccettabili come quella pronunciata dalla colf Maria che, rimasta incinta, non sapeva indicare con quale dei due suoi amanti avesse concepito il figlio, o di scene in cui si recitava il rosario ma «senza la dovuta riverenza».
Poi però Andreotti, alternando bastone e carota, si ingraziò De Sica inserendolo in una prestigiosa commissione internazionale e facendolo nominare, ciliegina sulla torta, “commendatore” per la sua “attività benemerita”. Meno fortunato fu Vitaliano Brancati. Per prima finì sotto la daga censoria la commedia Raffaele, giudicata addirittura una mina vagante, «pericolosa per l’ordine pubblico» dal momento che metteva in campo le vicende di ex fascisti pronti a cambiare casacca nel dopoguerra. Questo «brutto lavoro con spunti di discutibile gusto» dovrà aspettare dieci anni per apparire sui palcoscenici dello Stivale e lo stesso destino capiterà a La governante (di cui Sedita ha recuperato il dattiloscritto originale, con i tagli della censura) che non vedrà la luce fino al 1965. La protagonista sarà definita una “anormale” per le sue predilezioni sessuali: tra le righe epurate vi sono pure quelle in cui Caterina ricorda che scrittori famosi hanno dedicato tante pagine all’omosessualità.
Nella commissione censoria, però, vi sarà anche chi protesterà contro questo massacro. Sarà lo scrittore Cesare Vico Lodovici a esporsi. «Confesso la mia incapacità a mettermi dal punto di vista di una Censura che considero eccessiva e pericolosa per la vita del teatro… La Censura per intervenire dovrebbe essere sicura di avere serie ragioni, gravi, anzi gravissime». Come reagisce a queste obiezioni il Divo Giulio, uomo di fede e di cesoie? Affermando che la pièce è «materia indigeribile» e che «le critiche stanno creando uno stato di disagio cronico in tutta la commissione Censura». Anche in questo caso Andreotti cercherà di non alzare un polverone, di operare secondo «garbati interventi, assidua e oculata prevenzione… in nome dei principi cristiani». Garbatamente, dunque, il ribelle Lodovici sarà destinato ad altro incarico. Con buona pace degli artisti e del dibattito culturale, privato della presenza di opere che il censore definiva «alla Sartre… in cui vengono rappresentate incestuosità, anormalità e casi patologici».
Mirella Serri