Sergio Rizzo, Sette 26/4/2012, 26 aprile 2012
QUANTO SONO CARI I NOSTRI POLITICI
«Inutile negarlo, la gente ormai ci detesta». Nella rassegnata amarezza dell’ex ministro Gianfranco Rotondi c’è tutto il dramma della politica italiana. Dal 1974, da quando esiste il finanziamento pubblico, i partiti italiani hanno ingoiato una dozzina di miliardi di euro dei contribuenti. La corruzione, dice la Corte dei conti, pesa sulle tasche degli italiani per 60 miliardi l’anno: quanto nel resto di tutta Europa. Gli scandali per l’uso distorto dei rimborsi elettorali, utilizzati per comprare diamanti, lingotti d’oro o ville ai Castelli romani, si susseguono senza sosta. Tutti i sondaggi dicono che la fiducia dei cittadini verso i movimenti politici è rasoterra: grasso che cola se arriva al 4 per cento.
Difficile, alla luce di tutto questo, spiegare ai cittadini, com’è scritto nella telegrafica relazione al disegno di legge sui controlli dei bilanci dei partiti firmato per primi da Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, che «cancellare del tutto i finanziamenti pubblici sarebbe un errore drammatico che metterebbe la politica completamente nelle mani di lobby, centri di potere e di interesse particolare». Concetti che secondo un altro dei firmatari di quella legge, l’ex radicale ora Fli Benedetto Della Vedova, sono «frutto della ottusità burocratica di qualcuno». Ma denunciano una somiglianza impressionante con quelli contenuti in un altro provvedimento di ben trentasei anni fa.
È la legge numero 195 del 1974 sul finanziamento pubblico: per capire il perché gli italiani sono arrivati a “detestare” i partiti si deve necessariamente partire da qua. Il 13 febbraio di quell’anno il giudice Mario Almerighi mette sotto inchiesta i segretari amministrativi della Dc, del Psi, del Psdi e del Pri: l’accusa per tutti è quella di aver intascato tangenti dall’Enel e dalle compagnie petrolifere. Lo “scandalo dei petroli”, come sarà conosciuto in seguito, ha conseguenze devastanti. Il 2 marzo il leader repubblicano Ugo La Malfa esce dalla maggioranza e il quarto governo di Mariano Rumor è costretto alle dimissioni. Per evitare di essere travolti i partiti corrono immediatamente ai ripari. Il 20 marzo l’ex segretario della Dc Flaminio Piccoli insieme agli esponenti delle altre formazioni politiche finite nel mirino della magistratura (il socialista Luigi Mariotti, il socialdemocratico Antonio Cariglia e il repubblicano Oronzo Reale) presenta una proposta di legge che assicura ai tesorieri 60 miliardi di lire l’anno: l’equivalente di 380 milioni di euro attuali. Puliti e alla luce del sole.
Uno sconvolgimento epocale, considerando come fino ad allora si erano finanziati i partiti. Se i tesserati erano decisamente più numerosi di oggi, come pure le donazioni dei militanti, la sfrontata frase del fondatore dell’Eni, Enrico Mattei, resta indimenticabile: «Per me i partiti sono come un taxi. Salgo, pago la corsa e scendo». Erano gli anni in cui la Dc veniva foraggiata sottobanco dagli americani. Mentre al Partito comunista arrivavano fiumi di denaro da Mosca. Le prove? Per cinquant’anni sono rimaste sepolte nei polverosi archivi del Pcus, finché nel 1997 Francesca Gori e Silvio Pons le hanno scovate e pubblicate in un volume degli annali della Fondazione Gramsci. Lì c’è il resoconto dell’incontro svoltosi a Mosca il 12 dicembre 1947 fra il presidente del soviet supremo Andrej Aleksandrovic Zdanov e Pietro Secchia, il vice di Palmiro Togliatti. I due vengono subito al dunque. Secchia spiega che mancano pochi mesi alle fatidiche elezioni del 1948, e chiede un sostanzioso aiuto ai compagni dell’Urss: 600 mila dollari americani. Zdanov non fa una piega. Si limita a domandare quanto vale un dollaro. E Secchia, pronto: «585 lire». Il volume esatto dei contributi sovietici pervenuti in quarant’anni al vecchio partito comunista italiano non si conosce. Né quanti dollari durante lo stesso periodo abbia intascato la Dc dagli Stati Uniti. Ma è certo che soltanto per le elezioni del 1948 arrivano al Pci rubli travestiti da dollari per l’equivalente attuale di sei milioni e mezzo di euro. Una cifra mostruosa. Anche se sbiadisce di fronte al volume di fuoco finanziario delle ultime campagne elettorali.
GLI OBIETTIVI DELLA LEGGE PICCOLI
Sulla carta le intenzioni di Piccoli e colleghi sono nobilissime. Com’è scritto nella relazione, i soldi pubblici servono non solo per “assicurare le condizioni economiche di sopravvivenza dei partiti”. Ma anche come “primo passo verso la moralizzazione della vita politica… soffocando la fonte e l’impulso da cui prende vita la ricerca dei finanziamenti esterni”. In altri termini, per combattere la corruzione, che già dilagava, e i condizionamenti dei potentati economici.
La verità però è un’altra. Sentite che cosa dice alla Camera l’8 aprile 1974 il socialista Mariotti, uno dei firmatari della legge Piccoli il cui nome fu trovato otto anni più tardi negli elenchi della P2. Le sue parole potrebbero essere state pronunciate oggi, non farebbe alcuna differenza: «In un clima di collera contro la classe politica si muove ad essa l’accusa di non essere stata capace di trovare adeguati rimedi per arrestare il pauroso aumento del costo della vita, per garantire l’occupazione, per salvaguardare il potere d’acquisto dei redditi. In questo clima gli scandali rappresentano acido corrosivo sul già deteriorato legame tra il paese reale ed il paese legale. L’immagine di partiti incapaci di governare e corrotti, e forse perché corrotti incapaci di governare, è un’immagine che, lo sappiamo tutti, deforma la realtà, ma troppi elementi concorrono ad accreditare nel paese il discredito della classe politica».
A parte qualche bisticcio di parole, è chiarissimo. Il finanziamento pubblico è la medicina per far recuperare credibilità alla classe politica.
Presentata il 20 marzo 1974 alla Camera, la discussione in aula inizia l’8 aprile. Il 2 maggio, dopo soli 24 giorni, la legge è approvata. A Montecitorio i favorevoli sono 334, i contrari appena 42. Unico astenuto, l’indipendente del Pci Michele Columbu, che passerà dopo qualche tempo ai sardisti. Avremmo visto in seguito maggioranze ancora più bulgare e iter ancora più fulminei in occasione di altre iniezioni di denaro per i partiti.
BERLINGUER E LA QUESTIONE MORALE
Mancano dieci giorni alla prova di fuoco del referendum del divorzio, che spaccherà in due il fronte politico. Ma sul finanziamento pubblico sono tutti d’accordo, comunisti e neofascisti compresi. L’unico partito che si oppone è quello liberale. Aldo Bozzi prova a spiegare che non funzionerà. Denuncia che il costo dei partiti sta lievitando all’impazzata, e il finanziamento pubblico non farà che incentivarlo. Avverte che «costituirà una ulteriore spinta alla crescita degli apparati» e che potrà «portare al consolidamento delle oligarchie di partito esistenti». Trasformando per giunta il segretario politico in una specie di «Dio di denari per erogazione statale». Ma le parole del barbuto liberale cadono nel vuoto.
Identico destino avrà la famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari da Enrico Berlinguer nel 1981 sulla questione morale. Eppure anche lui era stato profetico: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune (…) I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali…». Salvava soltanto il suo Pci, Berlinguer. Ma siamo certi che anche molti eredi attuali di quella tradizione non potrebbero che arrossire rileggendo queste parole. Ammettendo il fallimento clamoroso di quella legge: la storia ha dimostrato che non frenò affatto la corruzione né la degenerazione dei partiti. Infatti 18 anni più tardi, puntualmente, scoppia il bubbone di Tangentopoli.
Eppure la legge del 1974 era addirittura migliore di quella che l’avrebbe seguita, dopo il referendum radicale che per un attimo, nel 1993, azzerò il finanziamento pubblico. Il “sì” passò con oltre il 90% dei voti: la legge Piccoli venne bocciata da 34 milioni 598.906 italiani, quasi il triplo dei 12,7 milioni di cittadini che nel 1946 avevano votato per la Repubblica. Su quel referendum si sono versati fiumi d’inchiostro. Si è detto, per esempio, che fu tradito con uno stratagemma, facendo rivivere l’anno seguente il finanziamento pubblico sotto forma di rimborsi elettorali. Ma è ancora peggio di com’è stata raccontata. Basta leggere la legge abrogata. Articolo 1: “A titolo di rimborso delle spese elettorali per il rinnovo delle due Camere, i partiti politici hanno diritto a contributi finanziari nella misura complessiva di 15 mila milioni”. Dei 60 miliardi, 15 erano appunto già “rimborsi”. I restanti 45, contributi ai gruppi parlamentari. A un rimborso, quindi, fu sostituito un altro rimborso, alla faccia della volontà popolare. Ma con una differenza non da poco: diversamente da quella del 1974, che prevedeva un tetto alle somme da restituire, la legge del 1993 ha introdotto un principio nuovo ed esplosivo. Quello che i “rimborsi” vengono
calcolati a forfait su ogni elettore. Non conta quanti materialmente depositano la scheda nell’urna, perché il conto si fa sempre sugli aventi diritto al voto. Ottenendo così due effetti collaterali: che i soldi crescono automaticamente con il numero di elettori e le somme si possono incrementare con facilità estrema. Basta aumentare il pro capite. Si è così passati dalle iniziali 1.600 lire per elettore (800 per Montecitorio e altrettanti per palazzo Madama) a 4 mila lire nel 1999, per arrivare a cinque euro soltanto un paio d’anni più tardi. Cinque euro a elettore per la Camera, altri cinque per il Senato, cinque per le regionali e cinque per le europee. Fanno venti euro per elettore ogni cinque anni: un miliardo di euro tondo, considerando 50 milioni di aventi diritto al voto. Il tutto condito da piccole furbizie. Gli elettori del Senato devono avere almeno 25 anni. Sono quindi circa 5 milioni in meno rispetto a quelli di Montecitorio: nonostante ciò il rimborso del Senato si calcola sul corpo elettorale della Camera. Ancora. Esiste una soglia di sbarramento del 4 per cento? Sicuro. Ma per avere accesso al rimborso basta superare l’uno per cento. La conseguenza è che prende soldi pure chi non è in Parlamento. In virtù di tale regola la Destra che presentava nel 2008 Daniela Garnero Santanchè candidata premier (885.229 voti, pari al 2,4%) ha avuto diritto per gli anni dal 2008 al 2013 a rimborsi per 1.240.583 euro l’anno, ovvero 6,2 milioni in cinque anni: oltre 12 miliardi di lire. Rispetto alle spese dichiarate, pari a 2.442.360 euro, l’utile netto è di 3,8 miliardi. Come un investimento che ha reso il 154%: nemmeno un titolo spazzatura ai tempi della bolla di Wall street.
E chi non è arrivato all’uno per cento, come Sinistra critica o Forza nuova? Si attacca al tram. Ma i pochi soldi dei loro elettori non vanno certo sprecati: se li dividono in proporzione gli altri partiti.
Poche settimane prima delle elezioni del 2006 un emendamento furbetto ha consentito ai partiti di incassare le rate annuali dei rimborsi anche nel caso di fine anticipata della legislatura. Per la gioia di tutti. Comprese formazioni politiche morte, come i Ds e la Margherita, oppure rimaste fuori dal Parlamento. Per tre anni, dopo lo scioglimento delle Camere decretato nel 2008, hanno continuato a intascare soldi Rifondazione comunista (20,7 milioni), i Comunisti italiani (3,5 milioni), i Verdi (3,1 milioni) e anche l’Udeur di Clemente Mastella (2,7 milioni): formalmente il responsabile della caduta del governo Prodi e del voto anticipato.
PER GLI ITALIANI ALL’ESTERO
Sempre dal 2006, inoltre, sopra l’immensa torta dei rimborsi elettorali c’è anche una bella ciliegina: altri 3 milioni 691.960 euro. Sono i soldi che toccano per gli elettori italiani che hanno votato all’estero. Così nel 2006 la pioggerellina di denaro pubblico ha annaffiato, oltre alle grandi forze politiche, pure la lista Associazioni italiane in Sudamerica di Luigi Pallaro (318.830 euro), l’Unione sudamericana emigrati italiani (45.375), l’Alternativa indipendente italiani all’estero (18.615) e anche Per l’Italia nel mondo con Tremaglia (188.450 euro), movimento politico che faceva riferimento all’ex ministro per gli italiani nel mondo Pierantonio Mirco Tremaglia, detto Mirko, esponente di Alleanza nazionale ed ex repubblichino di Salò, inventore della legge che fa votare pure i connazionali oltrefrontiera.
Il conto è presto fatto: mentre la crescita economica segnava il passo, il debito pubblico aumentava e i tagli mordevano la carne viva di lavoratori e pensionati, fra il 1999 e il 2008 i rimborsi elettorali lievitavano del 1.110 per cento. C’è chi difende la folle progressione dei rimborsi elettorali (il tesoriere diessino Ugo Sposetti) con la necessità di rispondere alla potenza di fuoco dispiegata a partire dal 1994 da Silvio Berlusconi. Ma è un’argomentazione che può essere facilmente demolita: pur non volendo rispettare la volontà di quasi 35 milioni di cittadini fra i quali certo molti elettori e militanti di sinistra (anche loro qualunquisti e nemici del Parlamento?) si potevano stabilire tetti precisi, controlli rigidi e soprattutto sanzioni severe. La soluzione non era allargare il portafoglio, ma introdurre limiti e trasparenza. È accaduto invece il contrario. L’inesistenza dei controlli ha fatto il resto, facendo esplodere casi come quello dei fondi della Margherita e della Lega Nord.
Il fatto è che i “rimborsi” sono diventati soprattutto un grande affare. Il succo è tutto in questi pochi numeri. Avendo dichiarato spese per 136 milioni, i partiti hanno avuto diritto, per le elezioni 2008, a vedersi “rimborsare” 503 milioni. Nel suo libro Partiti spa, Paolo Bracalini ha calcolato che dal 1994, primo anno di applicazione dei nuovi “rimborsi”, spese elettorali per 579 milioni hanno fruttato ai partiti introiti per quasi 3 miliardi. Il che fa capire perché su quel termine, “rimborsi”, la Corte dei conti abbia picchiato così duro. “Rimborso”, secondo il dizionario italiano, significa “restituzione di denaro speso”: va da sé che se si restituisce tre o quattro volte quanto si è sborsato bisogna usare una parola diversa. E se nessuno ha ancora battuto il record del radiotelegrafista Giancarlo Fatuzzo, inventore a 43 anni del Partito dei pensionati, che in occasione delle europee del 2004 riuscì nell’impresa di moltiplicare per 180 l’investimento di 16.435 euro, incassando quasi tre milioni, pochi si possono lamentare.
Non si può lamentare il Popolo della libertà di Silvio Berlusconi, che nel 2008 ha speso 68,4 milioni ricavandone 206,5. Né il Partito democratico, che avendo investito 18,4 milioni avrebbe diritto a 180,2 milioni: dieci volte tanto. Ma neppure la Lega Nord: 4,8 milioni di spese a fronte di 41,4 milioni potenzialmente incassati.
Un mare di denaro, che ha fatto impazzire la macchina elettorale. Basta dire che nel 1996 le spese elettorali di Alleanza nazionale e Forza Italia superavano di poco il controvalore di 5,1 milioni, mentre dopo 12 anni quelle del Popolo della libertà erano dodici volte superiori.
Dal 1974 al 2010 il finanziamento pubblico ha fatto intascare alle formazioni politiche l’equivalente attuale di 5 miliardi e 555 milioni. Ma i contribuenti hanno tirato fuori molto di più: considerando l’inflazione si può calcolare a oggi una cifra prossima ai 10 miliardi di euro attuali. Perché i “rimborsi” non sono che uno dei canali attraverso cui i denari pubblici vanno ai partiti. Ci sono anche i contributi ai gruppi parlamentari: erano 33 milioni e mezzo nel 2000, sono saliti a 55,5 milioni nel 2007 per arrivare ai 75 milioni attuali. Cifra dello stesso ordine di grandezza di quella dei contributi ai gruppi politici nei 20 consigli regionali. Anche se qui non si può andare oltre una stima, considerando che rintracciare tutti i dati è una complicata caccia al tesoro. E sono, comunque, altri 150 milioni l’anno. A questa somma vanno aggiunti ancora circa 50 milioni: i soldi destinati ai giornali di partito. Non senza una certa disinvoltura, come hanno dimostrato numerose inchieste giudiziarie. Dal 1990, anno in cui è stata varata la legge che finanzia la stampa politica, fino al 2009, ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, gli organi dei partiti o sedicenti tali hanno ingoiato una somma pari a 850 milioni 851.746 euro. Il numero è contenuto nel libro I soldi dei partiti - Tutta la verità sul finanziamento alla politica in Italia di Francesco Paola ed Elio Veltri: il primo, avvocato e saggista; il secondo, medico, già sindaco socialista di Pavia, quindi consigliere regionale lombardo per Democrazia proletaria, poi deputato dell’Ulivo e fondatore dell’Italia dei Valori con Antonio Di Pietro, dal quale ha in seguito preso le distanze.
In testa c’è l’Unità, con 169 milioni, seguita dal Secolo d’Italia (76,4), Liberazione e la Padania (63,6)… Nell’elenco non poteva mancare l’Avanti di Valter Lavitola che Bobo Craxi qualificò come «un foglio di spionaggio politico», destinatario di 23 milioni di euro. Quattrini sui quali ora indaga la magistratura, con l’ipotesi che si tratti di denari incassati illecitamente. E che si andrebbero ad aggiungere a quelli che lo Stato ha già dovuto tirare fuori per saldare i creditori del ben più glorioso Avanti! del vecchio Psi dopo il naufragio di Bettino Craxi. Ben 9 milioni e mezzo di euro liquidati nel 2003 grazie alla garanzia pubblica concessa da una vecchia legge ai debiti contratti dagli organi di partito.
Dunque i conti. I “rimborsi” elettorali valgono poco più di 200 milioni l’anno, ma dalla prossima legislatura saranno ridotti del 30%, a circa 145 milioni. Altri 150 milioni, ma è una stima per difetto, sono rappresentati dai contributi ai gruppi politici in Parlamento e nelle Regioni. E arriviamo a 295 milioni, che salgono a 345 calcolando anche i fondi per i giornali. Ma non è ancora tutto.
Manca infatti lo sgravio fiscale del 19% cui ha diritto, fino a un tetto di ben 103 mila euro, ogni privato che dà denaro a un partito o a un politico. Un vantaggio indecente rispetto alle donazioni alle associazioni benefiche, come quelle per la ricerca sul cancro o sulle malattie rare, le quali possono anch’esse ottenere sgravi del 19%, se fatte dai singoli cittadini, ma solo entro 2.065 euro. Economia massima: 392 euro.
IL RECORD DI LETIZIA MORATTI
Questa regola sui benefici fiscali può produrre, com’è intuibile, effetti sbalorditivi. L’Udc ha ricevuto tra il 2008 e il 2010 ben 27 assegni da 100 mila euro ciascuno provenienti da aziende e dalla cerchia familiare del costruttore, finanziere ed editore (Il Messaggero e Il Mattino) Francesco Gaetano Caltagirone, suocero del leader Pier Ferdinando Casini. Con un assegno unico da 2 milioni 700 mila avrebbero risparmiato appena 19.570 euro. Con 27, si è potuto moltiplicare per 27 lo sgravio: risparmiando 513 mila euro.
Sottigliezza alla quale non ha fatto evidentemente caso Gian Marco Moratti. Il marito di Letizia Brichetto ha contribuito alla campagna elettorale di sua moglie per il Comune di Milano con una generosità senza precedenti: 11 milioni e 600 mila euro, versati in quattro tranche. Quasi il doppio della cifra monstre già messa in campo dal petroliere in occasione delle comunali del 2006, quando aveva investito nell’elezione di Letizia a sindaco del capoluogo lombardo la bellezza di 6 milioni 355 mila euro. In quel caso, raggiungendo almeno l’obiettivo. Ma se i 17 milioni 955 mila euro spesi da Gian Marco Moratti per sostenere le ambizioni politiche della consorte al fratello Massimo sono appena bastati per pagare un anno e mezzo di stipendio (sponsor esclusi) dell’ex allenatore José Mourinho, quella cifra fa capire che è arrivato il momento di fermarsi a riflettere su cosa è diventata la politica. Dal Parlamento fino al livello più basso della rappresentanza elettiva, quella dei consigli comunali. Un caso? Scorrendo le dichiarazioni patrimoniali dei consiglieri del Comune di Roma si scopre che per la campagna elettorale del 2008 il democratico Mario Mei, funzionario del ministero dell’Interno, avrebbe speso 216.346 euro e 35 centesimi. Quattro anni e mezzo del suo stipendio, pari a 46.069 euro. Da restare stecchiti.
Difficile, se non impossibile, fare il conto esatto dei finanziamenti privati arrivati nelle casse dei partiti da quando esiste la Repubblica. Anche perché quelli ufficiali, come hanno dimostrato fin dagli anni Sessanta le inchieste giudiziarie, non sono che una parte infinitesima. L’obbligo di rendicontarli, per giunta, esiste soltanto dal 1981 e appena dal 1988 esiste una banca dati. Sarà disponibile via internet, penserete. Queste informazioni dovrebbero essere pubbliche. Infatti è previsto che siano accessibili a tutti. Ma non affannatevi a cercarle sul sito del Parlamento. Non ci sono. Per averle bisogna prendere il treno o l’aereo per Roma, recarsi in un ufficio della Camera e, dopo aver autocertificato di essere iscritti alle liste elettorali, si hanno i dati richiesti: su carta.
LA GENEROSITÀ DELLE IMPRESE
Negli elenchi si trova di tutto. Ci sono per esempio i contributi volontari dei singoli parlamentari che versano al partito una fetta dei loro emolumenti: utilizzando, frequentemente, i soldi che sarebbero invece destinati al portaborse che viene sottopagato o pagato in nero. Con il risultato di ottenere addirittura lo sgravio fiscale del 19% su una somma già esentasse.
Si trova anche la prova provata che la generosità di molte imprese, soprattutto società di costruzione, è assolutamente bipartisan. E si sfatano molti luoghi comuni, per esempio quello che il mondo delle cooperative abbia finanziato sempre soltanto la sinistra. La dimostrazione sta nei 50 mila euro che il Popolo della libertà ha incassato dalla Metro C, il general contractor che sta realizzando la nuova linea della metropolitana di Roma: un consorzio di cui fanno parte, oltre a Caltagirone, Astaldi e Ansaldo, anche due giganti della Lega coop emiliana quali la Ccc di Bologna e la Cooperativa muratori e braccianti di Carpi. Ricordiamo male o Berlusconi ha definito “intollerabile il sistema delle cooperative rosse che prendono appalti dalle giunte rosse e sono di supporto a un partito che è nell’agone politico”? Ma il denaro, com’è noto, non ha odore. E questo spiega perché i partiti spesso hanno accettato contributi e donazioni francamente inaccettabili, com’è accaduto prima della campagna elettorale del 2006 quando la società Autostrade distribuì fior di quattrini a tutte le formazioni politiche: 150 mila alle più grandi e 20 mila alle più piccole. Soltanto i Verdi e i Comunisti italiani, pare, ebbero il buon gusto di rifiutare denari provenienti dalla concessionaria di un servizio pubblico. L’Idv di Di Pietro, nominato ministro dei Lavori pubblici, invece li restituì dopo averli presi.
Proprio nessuno, invece, ha respinto l’aiuto di Berlusconi. Neppure la sinistra più estrema. Perché in testa alla lista dei contribuenti privati dei partiti italiani c’è lui, il Cavaliere. Il quale si è trovato contemporaneamente a essere il maggior donatore e il principale beneficiario. Com’è stato possibile? Con gli sconti sugli spot televisivi. Fino al 2000, prima che venisse introdotta la par condicio, i partiti facevano pubblicità in televisione e le reti Fininvest praticavano sconti pazzeschi a tutti quanti. Dal 1988 i contributi di Publitalia ’80 alle formazioni politiche erogati sotto questa forma hanno così raggiunto 72 milioni 713 mila 103 euro. La fetta più grossa, manco a dirlo, al partito di Berlusconi, Forza Italia: 17 milioni. Al secondo posto, il Psi di Bettino Craxi: 15,1 milioni. Ma poi anche la Dc (8 milioni e mezzo), il Movimento sociale e Alleanza nazionale (4 milioni), il Pci, poi Pds, poi Ds (3,4 milioni in tutto), la Lega (un milione e mezzo) e perfino Rifondazione comunista (732 mila euro di sconti).
Quanti soldi sia costato e ancora costi ai contribuenti lo sgravio per i finanziamenti privati ai partiti non si sa. Anche perché in base alla stessa leggina del 2006 che ha previsto la doppia razione di rimborsi in caso di fine anticipata della legislatura, è possibile far restare anonimi i contributi sotto i 50 mila euro. Limite che con la legge sui controlli ora in discussione alla Camera verrebbe abbassato a 5 mila euro. Ma sulla base dei versamenti dichiarati, che nel 2010 sono ammontati a una cinquantina di milioni, è verosimile che ogni anno una decina di milioni siano a carico del Fisco.
Riassumiamo: 145 milioni di “rimborsi”, più 150 di contributi ai gruppi parlamentari e consiliari, più 50 milioni ai giornali, più 10 di sgravi fiscali. Fa 355 milioni, che divisi per il numero degli abitanti dà 5 euro e 85 centesimi l’anno per ogni italiano. Più della Germania, dove l’insieme dei finanziamenti pubblici peserebbe, considerando pure i cospicui contributi alle fondazioni, per 5 euro e 64 centesimi su ogni abitante. Senza considerare, e non è un dettaglio, che la ricchezza prodotta pro capite dai tedeschi è superiore del 23% a quella degli italiani. E che la politica in Germania funziona un po’ meglio che da noi. Nemmeno questo è un dettaglio.
Sergio Rizzo
(ha collaborato Matteo Marchetti)