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 2012  aprile 26 Giovedì calendario

SAUDADE E RECESSIONE



Portogallo, la nave europea che sta andando alla deriva
Gli aiuti economici hanno avuto un prezzo troppo alto. E oggi il Paese che fu grande potenza marittima è solo una «frontiera in movimento»
Nelle vetrine di Ferìn, la libreria cara all’otto­centesco Eça de Quei­rós come al novecen­tesco Fernando Pessoa, i titoli dei libri esposti sono un grido di dolo­re.
A dividadura , la dittatura del debito, proclama il saggio a due mani di Francisco Louça e Maria­na Mortágua, Debito pubblico e de­ficit democratico , rilancia quello di Paulo Trigo Pereira, Contro l’au­toflagellazione è l’invito di Bona­ventura de Sousa Santos...
Un anno dopo il diktat della Troika europea, Fondo moneta­rio, Banca Centrale e Ue, che in cambio di un pacchetto triennale di aiuti di 78 miliardi di euro aveva chiesto e ottenuto più tasse, liber­tà di licenziamento nel settore pubblico, privatizzazioni a piove­re, riduzione dei salari e delle pen­sioni, tagli sociali, aumento delle tariffe dei tra­sporti, raddop­pio dell’Iva, l’impressione è che la cura da cavallo inflitta ai portoghesi non avrà termi­ne con il 2013, avrà bisogno di un nuovo pre­stito, pena il fal­limento, nel 2014, e rischia di ammazzare il «cavallo» nel 2015. Oggi gli interessi sui buoni del Teso­ro sono al 22 per cento (so­pra il 7 per cento le agenzie di ra­t­ing considerano uno Stato econo­micamente inaffidabile), la disoc­cupazione è al 13 per cento, non c’è crescita. Secondo Francisco Louça è una politica che porta «a una nuova recessione, alla molti­plicazione del debito, alla distru­zione della produzione». De Sou­sa Santos è ancora più categorico quando osserva che il Portogallo è vittima «dell’arma di distruzione di massa del neoliberismo», ovve­ro «il capitale finanziario». Più che una moneta,l’euro è una dan­nazione: «Cosa accadrà quando gli europei si accorgeranno che a un cambio di governo non corri­sponde un cambio di politica? Co­sa accadrà quando ci renderemo conto che Papademos, Monti e Draghi hanno passaporti differen­ti, ma di fatto un’unica nazionali­tà, quella di Goldman Sachs?».
Negli anni ’90 il Portogallo era, stando all’allora presidente del­l’Unione Europea Jacques Délors, «il buon allievo dell’Euro­pa ». C’erano stati l’Expo ’98 di Li­sbona, il Nobel della Letteratura a José Saramago nello stesso anno, poi i campionati europei di calcio del 2004, con la nazionale porto­ghese in finale... L’immagine pol­verosa, ereditata dal salazarismo, di un Paese povero, rurale, di forte emigrazione, aveva lasciato il po­sto all’urbanizzazione e a una so­cietà dei consumi che, grazie ai fondi strutturali dell’Ue, favoriva la crescita e insieme l’indebita­mento. Il ritorno di Macao alla Ci­na, l’indipendenza di Timor Orientale nel 2002, ne avevano ul­teriormente marcato l’ancorag­gio continentale, eppure è dal Bra­sile, antica colonia e insieme para­dossale madrepatria, che è venu­to appena un anno fa un soccorso economico, è nella Cplp, la Comu­nità dei Paesi di lingua portoghe­se che ingloba le ex colonie africa­ne, che ha trovato nuova linfa l’an­tico luso-tropicalismo salazaria­no, una sorta di patria intempora­le­che parla in portoghese a 200 mi­lioni di persone, il sogno di Fer­nando Pessoa: «La mia patria è la mia lingua».
Ancora negli anni ’70 del ’900lo scrittore Miguel Torge aveva an­notato nel suo diario: «Noi che sia­mo stati i nomadi del mondo, do­vremo d’ora in avanti essere le se­dentarie comparse di un’Europa in cui ci siamo sempre sentiti stret­ti e nella quale non abbiamo mai saputo realizzarci. Partire era il no­stro modo di emanciparci. Ades­so la nostra strada non sarà più quella della ricerca di vasti spazi dove affermare ciò che ci era stato rifiutato nella culla, ma quella di una scoperta interiore».
Basta girare per Lisbona per ren­dersi conto del paradosso di una capitale imperiale e insieme terra di frontiera, «testa dell’Europa» eppure «cafro d’Europa», patria malata e«patria enigmatica»,l’im­perialismo pessoiano come «fatto mentale»... Nel XIX secolo delle colonie e delle conquiste, l’ana­cronismo coloniale del Portogal­lo è qualcosa di cui gli stessi intel­lettuali portoghesi hanno perfet­ta cognizione. Storicamente par­lando, l’impero è morto tre secoli prima, quel giorno d’agosto del 1578 in cui l’imperatore-bambi­no D. Sebastiao scomparve nelle sabbie marocchine di Alcácer-Quibir.Da allora,il corpo dell’im­pero non è stato altro che un « ca­dàver adiado », un cadavere pro­crastinato, e quindi un impero ma­­teriale postumo, tutto da reinven­tare, ma solo ormai in forma miti­ca e poetica. Quando nel 1890 il Portogallo pensa d poter dire la sua nella spartizione africana unendo Angola e Mozambico, e quindi Atlantico e Pacifico, è l’In­ghilterra a porre il veto con un ulti­matum tanto protervo e scarno quanto efficace. Di lì a un decen­nio la monarchia portoghese ve­drà un duplice regicidio, re ed ere­de al trono, e l’avvento della re­pubblica, e il Novecento darà al Portogallo il primato dell’instabi­­lità: 45 governi fra l 1910 e il 1926, assassinii politici e colpi di Stato.
Arroccata sull’estremo limes dell’Europa,a picco su un Oceano Atlantico che è scoperta, viaggio, esplorazione, ma non culla di civil­tà, Lisbona ha nella settecentesca Praça do Comércio la celebrazio­ne di un destino che è anche una maledizione. La volle il marchese di Pombal dopo il terremoto che aveva distrutto la città, ne fece il simbolo di un popolo di navigato­ri che intanto era divenuto un po­polo di emigranti. L’Arco della Vit­toria che la delimita su­l fronte del­la terra ferma ha per corona le sta­tue dei navigatori illustri del passa­to, ma è sulle pietre di quella piaz­z­a che re Carlos I e suo figlio venne-ro assassinati in nome dell’anar­chia e della repubblica. Fino anco­ra a quarant’anni fa, studi e studio­si nordamericani classificavano i portoghesi come l’unico gruppo di emigranti di un Paese europeo a cui era rifiutata l’origine euro­pea. Nel suo Atlantico periferico (Diabasis), Boaventura de Sousa Santos, prendendo gli shakespea­riani Prospero e Calibano come simboli del colonizzatore e del co­­lonizzato, non può fare a meno di notare che il Portogallo-Prospero era non solo calibanizzato nella sua realtà continentale, ma metic­cio per origine, finiva cafrizzato nelle sue proprie colonie e semi­calibanizzato in quelle delle altre potenze europee... Fuori luogo e fuori tempo, sempre e comun­que.
Eppure, non è meno anacroni­stico il riposizionamento sull’Eu­ropa che nel XIX secolo la «genera­zione del ’70» capitanata da Eça de Queirós propugnò in saggi e ro­manzi e che come un fiume carsi­co arriverà alla «rivoluzione dei ga­rofani » del secolo successivo, na­ta per mano di militari che non vo­levano più combattere per difen­dere un impero coloniale che co­stava alla madre patria più di quel­lo che rendeva. Cosmopolita, amante della Francia e dell’Inghil­­terra, diplomatico di carriera, Eça ne era perfettamente consapevo­le.
I Maia , La colpa del prete Ama­ro , L’illustre casa dei Ramìres , ro­manzi straordinari, descrivono una nazione popolata da nobili de­caduti e da politici corrotti, dove l’ignoranza e il bigottismo la fan­no da padrone e di là dalle scim­miottature delle mode altrui e dal­la retorica su un passato glorioso non si sa andare. C’è un’identità e una specificità portoghese che portano il Paese a essere comun­que e sempre periferia dell’Euro­pa, una periferia atlantica senza un centro cui fare riferimento.
I Maia di Eça de Queirós è an­che però un canto d’amore per Li­sbona dello stesso tenore di quel­lo che, trent’an­ni dopo, Pes­soa dedicherà, in lingua ingle­se, alla città. An­cora oggi la pa­sticceria Cister e il ristorante Tavares, il tea­tro de Trinida­de­e la Casa Ha­vaneza, l’Hôtel Central e i salot­ti del Gremio, le sale di Las Ja­nelas verdes, di­venuto alber­go, e che nel ro­manzo raffigu­ravano il Ra­malhete, la ca­sa della dinastia dei Maia che da­va il nome al romanzo, rimanda­no a una geografia sentimentale, i quartieri di Rossio e di Chiado, che è la stessa della Lisbona pesso­iana.
La statua in bronzo di questo po­eta dalle molteplici identità, che campeggia davanti al caffè La Bra­sileira, si gemella con quella di Queirós che non molto lontano av­volge una Verità femminile nuda e a braccia spalancate. Fra i due, il monumento a Luis de Camöes, nella omonima piazza, lega an­che il cantore dei Lusiadi nella di­sperata ricerca di un ubi consi­stam :
«I portoghesi siamo d’Occi­dente/ andiamo cercando la terra d’Oriente».
Frontiera in movimento, uni­versalismo precoce. Dal 2001, con il Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, il Portogallo è anche il principale laboratorio critico della cosiddetta «globalizzazione alternativa e antiegemonica», en­ne­sima rilettura di un rapporto in­compiuto e della volontà di evade­re da confini assegnati e segnati. Un altro modo per non rassegnar­si a «calzare troppo presto le pan­tofole dei pensionati della storia », secondo la formula di Eduardo Lourenço in Mitologia della sau­dade .
E per pensare che se il Porto­gallo resta un problema, forse l’Eu­ropa non è la sua soluzione.