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 2012  aprile 24 Martedì calendario

TANZI DEVE MORIRE?

Da ieri Calisto Tanzi sa di essere condannato a una pena perpetua, altri 18 anni vogliono dire 26 di carcere quando sta per compierne 74 e nuovi processi lo aspettano: addio a ogni speranza di libertà. Ha impoverito migliaia di risparmiatori, paga ciò che deve pagare. Un funzionario di una banca svizzera racconta dei 30 milioni accumulati nelle Americhe dei quali ha perso la memoria 10, 15 anni fa: “Consuetudine di ogni imprenditore con multinazionali sparse nel mondo. Non li vedrà mai più”. C’è un’altra notizia che non fa notizia: sta male. Non è solo la prigione. Tormento di chissà quale afasia: trascina le parole che è una pena. E l’intervento al cuore, e le ferite nelle cadute per mancamenti improvvisi e poi nutrito con la proboscide di una sonda infilata nel naso, insomma, anoressia, rinuncia misteriosa che spegne la vita di chi non vuol vivere. Mesi d’ospedale, camere dai vetri oscurati, niente ora d’aria, radio e tv, e la nostalgia della prigione diventa il paradosso di un paradiso perduto. I medici del carcere si dichiarano impotenti. I medici dell’ospedale provano a rianimarlo. Aggiungono flebo, ma l’abbandono non cambia: meno di 50 chili. Nuova emorragia perché la sonda non può essere per sempre. L’età consente al tribunale di sorveglianza la possibilità degli arresti domiciliari. Sentenze e rimbalzi della Cassazione rimandano da un anno. Se il sospetto della “commedia” poteva essere l’ombra, gli ultimi bollettini cancellano i dubbi, eppure il nostro è un paese strano. L’ingegnere Michele Aiello, controfigura del boss Provenzano, si trova agli arresti domiciliari per ritrovare la salute minacciata dal menu degli istituti di pena: troppi piselli e troppe fave per chi soffre d’intolleranza ai legumi. Non proprio un’eccezione. Salvatore Ferranti, clan Lo Piccolo di Palermo, ha lasciato il carcere: pesava 210 chili, non passava dalla porta. E il tribunale di Catania si è intenerito per la malinconia di Giacomo Maurizio, clan Pillera: piangeva, piangeva, i domiciliari ne curano la depressione. Alessandro Aracabascio, clan Partinico, è tornato in famiglia per far giocare le bambine che non sapevano con chi giocare: non bastavano madre insegnante, nonni pensionati, ecco la decisione sul filo della legge che esclude mafiosi o chi sospettato di poter “reiterare” il crimine. Può essere che nelle carte sia custodita la certezza del Tanzi protagonista di una bancarotta prossima ventura? Negli anni d’oro qualche brontolio dietro le tende dell’aristocrazia industriale frastornata da un protagonista che si allargava oltre l’immaginazione. Ma la visione della decadenza cancella antagonismi lontani e gli imprenditori di Parma scrivono al giudice con un’attenzione insolita nel mondo degli affari. Nel rispetto dei codici e “dello spirito di umanità alla base della funzione della pena”, chiedono se sia “possibile attenuare l’effetto drammaticamente debilitante che la detenzione sta cagionando a un uomo ormai anziano”. Non è la cronaca di un cronista emotivamente neutrale: abbiamo condiviso l’infanzia e la rivelazione della personalità nascosta sconvolge chi pensava di conoscerlo. Cosa può aver trasformato il Tanzi misericordioso nel barbablù del crac? Forse l’abbandono degli onorevoli protettori quando la politica ha smesso di governare le banche e la corte dei sanguisuga gira le spalle. Impallidisce la complicità dei gentiluomini della finanza. Se in tanti hanno perso i risparmi qualcuno deve averli intascati, ma una furbizia collaudata confonde le tracce. Soldi affondati nelle segrete di confraternite che gli sono estranee. Uno dei banchieri galleggia fra gli imputati. Continua a scalare carriere fantastiche: presidenze, deleghe che brillano, 52 milioni intascati negli ultimi 5 anni. Sa come girano certe amicizie mentre il signor Parmalat si era lasciato andare senza bussola nel mercato appena svanisce la protezione dei politici devoti. Improvvisazioni e trasgressioni esasperate da cortigiani arruffoni mentre ministri e adulatori di provincia lo abbandonano con l’ipocrisia dello sdegno. Comincia così la solitudine del rimorso.